lunedì 29 agosto 2011

"Per non aver commesso il fatto" : il legal thriller all’italiana di Michele Navarra


Il legal thriller è un sottogenere della letteratura gialla in cui hanno un ruolo fondamentale le storie di avvocati e pubblici ministeri e in cui il funzionamento del sistema giuridico in sé è la spina dorsale della narrazione.

L'origine più vicina del genere si fa risalire al romanzo Presunto innocente di Scott Turow del 1987, ma sicuramente l'esponente più noto è John Grisham (un titolo celeberrimo tra i tanti divenuti film di successo è Il cliente). Da qualche anno ci sono stati alcuni tentativi di importare in Italia questo genere tipicamente americano (basti pensare al classico Perry Mason, un personaggio nato dalla penna di E.S.Gardner negli anni Trenta), però il rischio maggiore è sempre quello di scimmiottare ingenuamente meccanismi al limite verosimili (tolta la componente letteraria) negli States, ma da noi improponibili e perfino risibili. Il sistema giudiziario americano e quello italiano sono profondamente diversi e solo operando nel rispetto di questa diversità uno scrittore italiano può ottenere credibilità.
La credibilità che possiamo trovare in Per non aver commesso il fatto (Giuffrè editore 2010) di Michele Navarra, un autore non a caso molto apprezzato dal pubblico e dalle giurie che lo hanno più volte premiato (tra cui la Legal Drama Society). Questo perché? Perché ha innanzitutto le competenze tecniche per cimentarsi in questo genere, essendo un avvocato penalista ogni giorno operativo sul campo e che attraverso la sua scrittura ci dà la possibilità di sbirciare in un mondo così affascinante. Navarra riesce a spiegarci in modo semplice, scorrevole, divertente, ma allo stesso tempo estremamente "esatto", come funziona il processo penale italiano, creando uno spaccato reale (e non banale) di ciò che succede nei nostri tribunali.
Attraverso il protagonista, Alessandro Gordiani, viviamo dal di dentro un processo e ci angosciamo, soffriamo con gli imputati e il loro avvocato che è un uomo reale, non un eroe, pieno di dubbi e incertezze, gravato di una responsabilità enorme e pronto a dare tutto se stesso per aiutare il proprio cliente. E mai nella certezza che sia davvero innocente (forse la questione più problematica del rapporto avvocato-cliente).
La trama è semplice: un imprenditore, Carlo Baldini, viene accusato da un testimone oculare, Giacomo Raimondi, di aver ucciso per gelosia un uomo che effettivamente era l'amante di sua moglie. All'avvocato Gordiani il compito (quasi impossibile) di dimostrarne l'innocenza e farlo assolvere "per non aver commesso il fatto".
La lettura è appassionante: Navarra riesce a dimostrarci che anche il processo penale italiano può essere assolutamente avvincente e anche spettacolare. Questo perché è un bravo scrittore, capace di rappresentare con il giusto grado di tensione narrativa ciò che avviene nelle nostre aule giudiziarie. Piace perché sa costruire dei perfetti meccanismi narrativi, ricchi di suspance (non manca il colpo di scena finale), perché i suoi personaggi sono ricchi di umanità e ironia e  non si dimenticano facilmente una volta chiuso il libro. Alessandro Gordiani finisce per conquistarci, oltre che per le sue fini doti analitiche, anche per la sua vita personale (sta per diventare padre) e le sue debolezze. E' un uomo onesto e simpatico, mai sopra le righe e finiamo con affezionarci a lui e sperare di incontrarlo nuovamente in qualche altro episodio (ed effettivamente l'autore ne ha già scritto uno nuovo).
Dato il successo di trasmissioni come "Un giorno in pretura" ci auguriamo che questo autore trovi in Italia il giusto riconoscimento di pubblico che merita e non resti ingiustamente all'ombra dei soliti colossi americani certamente ben scritti (ma anche questi romanzi sono ben scritti) ma che non appartengono alla nostra identità culturale (a meno che ci consideriamo un'appendice d'oltreoceano degli Stati Uniti).


Astrid Pesarino

http://www.ilrecensore.com/wp2/2010/06/per-non-aver-commesso-il-fatto-intervista-a-michele-navarra/
http://www.lalligatore.org/cms/2011/05/17/per-non-aver-commesso-il-fatto-recensione-al-legal-thriller-di-michele-navarra/

domenica 28 agosto 2011

BORIS PAHOR compie 98 anni! Grande festa a Capodistria organizzata dall’editore Mladinska Knijga per lo scrittore quasi centenario.

Il 26 agosto lo scrittore di fama internazionale Boris Pahor, noto autore di Necropoli, ha compiuto 98 anni. Per celebrare questo grande testimone delle tragedie del XX secolo, in continuo ascolto della contemporaneità, l'editore Mladinska Knijga, ha allestito un incontro con i lettori nella sede della propria libreria in Capodistria, una fra le molte distribuite sul territorio. Introdotto dalla saggista e studiosa Tatjana Rojc, Pahor, che ha ripercorso il dramma del popolo sloveno durante il fascismo, è stato a lungo omaggiato dal folto pubblico accorso numeroso ad ascoltarlo e a prendere parte a quella che è presto diventata una bella festa. La nostra agenzia, onorata dell'amiciza di Boris Pahor che ricambiamo con profonda stima, e rappresentante di Mladiska Knijga, è stata invitata a prendere parte all'evento. Ci ha molto colpito l’affetto con cui la Slovenia onora il suo scrittore valorizzandolo come un patrimonio vivente della memoria nazionale. A settembre Fazi pubblicherà la traduzione italiana de Nel Labirinto, titolo che conclude quella che può considerarsi con Necropoli e Qui è proibito parlare, un'ideale trilogia. 

Boris Pahor brinda con il Direttore generale di Mladinska Knijga

Pahor autografa il suo ultimo libro

Pahor e la studiosa Tatjana Rojc,
curatrice di un' antologia pahoriana oltre che autrice di numerosi
saggi sull'opera di Boris Pahor

venerdì 26 agosto 2011

Tempi irregolari al festival di Medana



Quest'anno la Tempi irregolari ha affiancato l'editore Sanje, di cui è agente, nell'organizzazione del festival letterario di Medana (22-28 agosto), sul carso sloveno goriziano.
Il festival è nato dieci anni fa come festival della poesia e del vino, scegliendo come location Medana in quanto luogo di nascita del poeta e traduttore (tradusse dall'italiano Dante e i principali lirici italiani) novecentesco Alojz Gradnik. Il festival è stato ideato, dunque, con la volontà di valorizzare il territorio come luogo di poesia (molte poesie di Gradnik hanno come protagonista proprio questi magnifici scorci collinari).
Dallo scorso anno l'organizzazione è stata rilevata da Rok Zavrtanik, proprietario della casa editrice slovena SANJE, che ha voluto farne un luogo d'incontro tra letteratura e musica.
Vengono infatti ospitati noti musicisti e i principali autori di prosa e poesia sloveni (quest'anno sono stati ospiti Boris Pahor e il poeta Miroslav Košuta introdotti dalla studiosa Tatjana Rojc), ma dal prossimo anno la prospettiva diverrà internazionale. E' prevista la partecipazione del famoso scrittore turco Ohran Pamuck e, con il supporto della nostra agenzia, di importanti scrittori italiani.


Il festival ha dato spazio anche a laboratori per bambini e a una mostra di Vesna Fabjančič Rustja un'artista e illustratrice colpita da sclerosi multipla patrocinata da Barbara Miklič Türk, moglie del presidente della repubblica slovena.

Ospiti d'onore della serata di Martedì 23 sono stati lo scrittore Boris Pahor e il poeta Miroslav  Košuta, vincitore del premio Prešeren 2011 (massimo riconoscimento sloveno in campo culturale). Alla presentazione di Kosuta ha fatto seguito una performance dellla band di Zlatko Kaučič che ha dedicato dei brani a Miroslav Košuta sottolineando così il profondo legame tra musica e linguaggio poetico.

Il fil rouge della serata sono stati dei versi del poeta Kosovel, letti dalla direttrice artistica del festival, la poetessa Tjaša Koprivec, editor presso Sanje.

L’incontro della Prof.ssa Rojc con BorisPahor ha avuto come centro l’esperienza autobiografica e l’internamento nel lager degli oppositori al regime che ha prodotto durante la seconda guerra tre milioni e mezzo di morti. Come unica salvezza possibile dopo aver subito gli orrori peggiori, la parola come catarsi di un individuo e una comunità tacciata di lingua proibita.

Con  Košuta si è parlato della sua poesia che costituisce l’albero della vita, accanto al tema della morte che l’autore esplica attraverso metafore metafisiche come il tavolo o la finestra.  L’albero della vita è anche il titolo dell’ultima silloge poetica di Košuta, con prefazione di Tatjana Rojc, dalla quale l’autore ha letto alcune poesie.

Ha introdotto la serata con Košuta una breve riflessione dello studioso Eugen Bavčar che ha ricordato il poeta Gravnik, conosciuto personalmente.

Colpisce il profondo rapporto d'amore tra la nazione slovena e i suoi poeti e la poesia in generale, una musa dalle nostre parti piuttosto bistrattata e ingiustamente trascurata.

Il nostro addetto ai foreign rights Stefano Bisacchi con Boris Pahor e Miroslav Košuta

sabato 20 agosto 2011

"Grazie, Merry" : Sergio Boffetti per "Racconti da premio".



 
Questa settimana presentiamo un toccante e delicato racconto di Sergio Boffetti. Un piccolo gioiello che vale davvero la pena di far conoscere ai lettori. Per non dimenticare.
Nel 2008 “Grazie, Merry” ha ricevuto un riconoscimento nazionale “per il suo importante messaggio di pace” al premio letterario dedicato a Tiziano Terzani “Firenze per le Culture di Pace”, e del quale è stato inserito uno stralcio nell’antologia “Racconti per la Pace”, a cura della regione Toscana.

 

 
GRAZIE, MERRY


Se solo Merry avesse immaginato quanto dolore sarebbe sfociato dal suo gesto, forse non l’avrebbe compiuto. La sera, quando alcuni avvenimenti della giornata mi portano a pensare alla fragilità e alla precarietà della vita, allora apro il diario di Merry: quello che porta ancora i suoi pensieri scritti fra le pagine; quello intriso di lacrime e sangue, intriso di dolore in ogni angolo.


Lo apro sempre come fosse la prima volta, meravigliandomi, anche alla mia età, di come tutto cambi dopo quella data. Il 5 luglio 1942. Le prime pagine hanno dei colori caldi e solari: giallo, rosso, arancio... Poi da quel giorno tutto si fa buio. Scompaiono gli alberi, scompaiono i fiori, scompaiono i bimbi che giocano e le famiglie che si tengono per mano. Appare una figura lunga e stretta. Un uomo con un cappello da militare e degli stivali. E nelle pagine successive tutto è uguale e nero. 


Non riesco a trattenere le lacrime ogni volta che leggo ciò che Merry scrisse ordinatamente fra le righe, all’inizio con una penna stilografica e in seguito con quello che capitava. In quella data, accanto all’uomo nero, con una scrittura microscopica descrisse ogni dettaglio della tragedia di quel giorno e di quelli successivi:


Questa notte la mamma mi ha svegliato a mezzanotte. Mi ha portato in cantina dove il mio papà teneva il vino. Mi ha trascinato giù per le scale ed ha aperto la botola nel pavimento di legno. Mi ha guardato con gli occhi lucidi, mi ha proibito di uscire dal nascondiglio per qualsiasi motivo e mi ha detto che mi amava. Io ho riso perché pensavo che era una cosa che le mamme dicono solo ai papà. Poi ho sentito Luisa, la mia nuova tata, che urlava delle cose strane. La mamma mi ha infilato nella botola ed ha richiuso il coperchio.
Buio.


Ho sentito i suoi passi che si allontanavano. In questo spazio piccolo faccio fatica a scrivere. Sento dei rumori nella sala da pranzo.
Sono passati dieci o venti minuti. Non ho l’orologio. Di sopra sento ancora delle voci e i passi forti di prima sono più vicini e veloci. Qualcuno che indossa degli scarponi sta scendendo le scale. Mi batte forte il cuore ma lo so che i cattivi non hanno fatto del male alla mamma e non lo faranno neanche a me. Ci credo.
Ho appena guardato dalle fessure del pavimento ed ho visto un uomo vestito tutto di nero con degli stemmi sulla giacca. Ha un paio di anfibi e un bastone infilato nella cintura ma non scoprirà mai il mio nascondiglio segreto. Disegno subito questo uomo nella pagina accanto a questa. Sono arrivati altri due uomini uguali a lui e mi stanno cercando ovunque.


Nello stesso momento, ad un paio di chilometri di distanza, io stavo aiutando mia madre a raccogliere il frumento nel campo di fronte a casa mia. Ricordo come fosse ieri: iniziava ad imbrunire ed eravamo appena rientrati in casa quando la porta d’entrata si spalancò di colpo. Mia madre mi strinse a sé, temendo il peggio. Ma era solo la signora Marta Abba.
«Sono arrivati i fascisti», disse con un filo di voce. I suoi capelli erano scompigliati e i suoi occhi cerchiati di blu. Non ebbe nient’altro da dire. Mia madre la informò del nostro alloggio segreto sotto la cantina, ma lei rispose che, se c’era posto, sarebbe tornata più tardi con la propria figlia.
Mi fece paura quel volto rassegnato e stravolto. Mi aggrappai alla gonna a fiori di mia madre e andammo nella dispensa a prendere un po’ di provviste da portare nel nascondiglio. Mi chiesi se la signora Abba fosse coraggiosa e forte. Avrei voluto parlarne con mia madre ma fui sempre troppo riservato per farlo. Lei mi confortò e mi raccomandò di non lasciare mai l’alloggio. Le avevo appena sorriso quando uno sparo si levò nell’aria. Mia madre guardò dalla finestra.
«Marta!», si lasciò sfuggire. Io non sapevo cosa avesse visto, ma avevo tanta paura che la signora Abba non fosse riuscita a tornare a casa dalla sua bambina. Io non vidi mai la scena di lei, distesa sulla terra battuta, mentre gridava contro gli uomini in nero un nome che era di colei che avrebbe cambiato la vita di tutti noi: Merry.
Senza dire nulla mia madre mi condusse con sé nel nascondiglio e chiuse a chiave la porta. Il signor Fabrizi, nostro domestico, mise un armadio davanti all’entrata del nostro alloggio segreto dopo averci passato le provviste. Dopo due giorni mia madre mi svegliò nel cuore della notte. Mi vestì e mi diede un bacio sulla fronte.
«Devi andare a prendere la figlia della signora Marta. Stringila forte a te e portala qui passando attraverso il bosco. Appena senti un rumore, anche lontano, sdraiati accanto a lei, copriti con delle foglie e rimani così finché il rumore non è cessato».
Poi mi spiegò la strada per arrivare dalla bambina che dovevo salvare.
Quando la strada del bosco si aprì, iniziai a vedere la villa bianca degli Abba. Aveva un’aria così fastosa e calda che sembrava impossibile fosse disabitata. Quando entrai, trovai un grande tavolo ancora apparecchiato e mi aspettai di vedere saltar fuori bambini che tiravano mollica di pane e madri premurose che cercavano di tenerli calmi. Uomini in doppiopetto che si versavano del vino e cameriere che servivano il cibo con studiata attenzione. Rimasi ad aspettare un attimo sulla porta ma non arrivò nessuno. Allora capii che tutto era più triste di quanto sembrasse e che il peggio doveva ancora arrivare. Bastava solo attendere. Perlustrai ogni stanza ma non c’era traccia di vita. Sotto i letti c’erano solo delle bambole di pezza, ma nessuna bambina nascosta. Non potevo tornare a casa dicendo a mia madre che non avevo trovato la bimba, mi avrebbe sgridato e rimandato a cercare meglio. Così scesi nella cantine e cercai dietro le botti di vino che il signor Abba stava facendo invecchiare. Tutto era silenzioso, nemmeno le assi di legno su cui camminavo scricchiolavano. Avevo quasi abbandonato ogni speranza di essere un eroe e stavo per andarmene.
Se non fosse stato per quel filo di voce, per quella canzoncina appena sussurrata, io non avrei mai incontrato Merry. Seguii quella vocina e trovai una botola. Si mimetizzava perfettamente con il resto del pavimento, tanto che solo un bambino avrebbe potuto notarla. Sollevai il coperchio e guardai con attenzione nel buio. Una testa fece capolino e due occhi grandi mi studiarono per un attimo. Quella fu la prima volta che vidi Merry. Aveva un foulard sui capelli e scriveva su un quaderno rosso. Le sue gambe erano magre e ben proporzionate al corpo minuto.
L’aiutai ad uscire da quel buco. Aveva fame e sete e pesava meno di venti chili. L’avvolsi in una coperta di lana marrone perché potessimo mimetizzarci nel bosco. Era ancora notte quando attraversammo la macchia per giungere a casa mia. Mi feci aprire dal signor Fabrizi e scesi nell’alloggio segreto. Mia madre rivolse tutte le sue premure a Merry perché era più piccola di me e perché era l’ultima arrivata. Il cibo iniziava già a scarseggiare e così non avemmo nulla da offrire alla nostra ospite.
Tutte queste cose non sono scritte nel quaderno di Merry. In quei tre giorni c’è un salto temporale, come se non avesse avuto nulla da scrivere o non avesse avuto la forza per farlo. Le scritte riappaiono il giorno 8 luglio 1942:


Questa notte non ho dormito molto. La casa di Ste è un po’ piccola e buia ma ha dei bellissimi mobili. Io dormo nel letto mentre Ste e la sua mamma Susanna per terra. Per entrare nel nostro nascondiglio dobbiamo passare per una porta bassa e stretta. Io e Ste non facciamo fatica ma i grandi sì. Sopra il mio letto c’è un piccolo buchino dove posso vedere quello che succede fuori. Una donna è passata pochi attimi fa. Nascondeva qualcosa nella sua gonna. Poi hanno bussato sette volte alla porta del nascondiglio. Era la signora che avevo visto passare prima velocemente sopra la mia testa. Si è avvicinata al tavolo ed ha rovesciato tutto quello che aveva nella gonna. C’erano del pane e della frutta fresca. Tutto per noi. Ho molta fame ma non ho ancora mangiato niente di quello che ha portato. La mamma di Ste ha spiegato a quella donna chi sono. Lei si è avvicinata a me e mi ha dato la mano. Si chiama signora S. (non mi ha detto il suo vero nome). È vestita molto bene ed è ricca. Ha tanti anelli sulle dita e collane di ogni tipo. Ha un cappello che sembra quello che metteva la mamma quando era elegante. La signora S. è sempre elegante.


Mi pare ancora di vedere gli occhi della signora incontrarsi con quelli della piccola. Qualcosa di grande passò in quello sguardo dando vita ad un legame intenso e profondo. Un rapporto costantemente sincero. E non vi fu giorno in cui l’una non cercasse l’altra. E non c’è pagina, da quel giorno, in cui Merry nel suo quaderno non parli di lei.


La signora S. mi ha promesso che, quando gli uomini neri non ci daranno più la caccia, mi inviterà a casa sua a bere il tè e mi farà conoscere i suoi gatti. Intanto lei mi sta insegnando a scrivere meglio senza fare errori. Da Ste ho imparato ad allacciarmi le scarpe.
Questa sera abbiamo pregato perché la guerra finisca. Anche il signor Fabrizi è venuto a pregare con noi. Lui non è ebreo ma è il domestico di casa, quindi si sente unito a noi in questi momenti di paura. Ho sempre voluto bene alle persone che si occupano dei meno fortunati e in questo caso i bisognosi d’aiuto siamo noi. Il signor Fabrizi si prende cura di noi.

Io passavo le mie giornate a dormire, forse perché il mondo dei sogni era un rifugio dalla realtà. Stavo bene solo quando dormivo e l’incubo iniziava quando un rumore o una voce mi riportavano all’inferno di ogni giorno. A quella paura incessante che non mi ha mai lasciato tregua e che anche oggi mi porto dietro. Non c’è più nulla che mi possa tranquillizzare, ora che sono vecchio. Così non mi resta che ripensare a quei giorni, a quella bambina, rileggere i suoi pensieri e rivivere ognuno di quei giorni. Attimo per attimo, sospiro dopo sospiro.

15 agosto 1942:
La signora S. è entrata nel nostro nascondiglio con le provviste per noi. Le prende dal suo negozio di alimentari perché era una vecchia amica del papà di Ste. Ci porta tanto pane morbido e della frutta lavata. Non si scorda mai di portarmi un dolcetto. Questa sera era un pezzetto di torta alle noci. Poi mi ha chiesto se ne volevo ancora. Lei sa che mi piacciono le noci e le ho risposto di si. Lei è magica ma non è una strega. Sa fare apparire e sparire le cose. Ha allargato le mani vuote. Poi le ha chiuse, girate e riaperte. Erano colme di torta alle noci e croccante alle mandorle.
Ricordo anche questo. Merry aveva le lacrime agli occhi dalla gioia e si aggrappò al collo della signora S. che la strinse forte a sé. La signora considerava la piccola come una figlia e, dato che non ne aveva di suoi, riversò tutto il proprio affetto e la propria maternità su Merry.
È incredibile pensare a quanta euforia avessimo nel cuore e quanta ne riuscissimo ad esprimere nonostante le circostanze. Eppure con Merry tutto era più semplice, più leggero. Ammetto che fosse difficile non volerle bene. Quando i suoi occhi si puntavano su di te, la sua fragilità ed il suo amore erano così tangibili che era impossibile non abbracciarla.
In questo contesto pare davvero superfluo, ognuno di noi ha fatto promesse simili nella propria infanzia. Eppure mi piace pensare che io e lei ci eravamo promessi di sposarci, da grandi. Non è tanto questa innocente promessa a scaldarmi il cuore, ma il solo pensiero che lei volesse sposarmi significa che mi voleva davvero tanto bene.
Oggi piove a dirotto, tanto che la signora S. non è riuscita a portarci il cibo. Io e Susanna però abbiamo trovato nella dispensa delle uova e un po’ di farina bianca. Poi il signor Fabrizi ci ha portato lo zucchero e abbiamo preparato dei biscotti che abbiamo cotto sulla stufa. Erano un po’ troppo dolci perché io, senza che la mamma di Ste mi vedesse, ho aggiunto dell’altro zucchero. Io e Ste ci siamo divertiti a pasticciare con l’impasto e a spalmarlo sui capelli di Susanna. Lei mi ha detto che sono dispettosa come una scimmia e ci siamo spanciati dalle risate.
Mamma mi manchi.
Due giorni dopo, sul diario di Merry, c’è un ritratto della signora S. con delle lacrime nere che le scendono dagli occhi. Poi, accanto al disegno, la piccola spiega l’accaduto.


La signora S. oggi è molto triste. Ho cercato in ogni modo di consolarla, ma io sono piccola e non ho potuto fare molto. Intanto l’ho ascoltata. Ieri sera, quando ha lasciato il nostro alloggio, è tornata a casa sua senza passare dal suo negozio. Questa mattina si è alzata con uno strano pensiero. Ha fatto degli incubi rumorosi. Il chiasso stava quasi per svegliarla ma non era abbastanza intenso. Quel fracasso non proveniva dalla sua casa e lei l’ha capito subito. Perciò è corsa in fretta nel suo negozio. Le vetrine erano andate in frantumi e il cibo era sparso sul pavimento. Le spezie, le caramelle gommose e le torte erano finite sul retro dove la signora S. tiene il magazzino. Io le ho detto che forse erano stati gli uomini neri ma lei si è arrabbiata. Dice che un suo amico conosce bene i cattivi e nessuno di loro potrà farci del male.
Ricordo di non aver mai visto quella donna perdere così il suo autocontrollo. Disse che erano stati dei ragazzini affamati in cerca di qualche cosa di morbido da mettere sotto i denti. Io non credetti mai a quella ipotesi, perché dal negozio non era stato rubato niente. Fu solo una vile irruzione di persone male intenzionate. E la signora S. sapeva bene chi era stato, noi tutti lo sapevamo, ma certe cose sono insopportabili da accettare. Negare, fino a che fosse possibile, era l’antidoto migliore contro il dolore. Ma arriva il giorno in cui non puoi più negare, non puoi più nasconderti, e le finte sicurezze che ti sei costruito crollano davanti ai tuoi occhi senza che tu possa evitarlo:
La signora S. è preoccupata per quanto è successo, ma poi gli è passata. Con me è tanto gentile. Mi ha insegnato un incantesimo per far innamorare la persona desiderata: occorre un nastro di raso rosso abbastanza lungo (lei ha tolto quello che stava sul suo cappello per mostrarmi come si fa). Poi si prende il nastro, si scrive il nome della persona amata e si fanno sette nodi stretti stretti, tutti alla stessa distanza. Si lega intorno al polso e si tiene per nove giorni e nove notti. Le ho detto in un orecchio il nome che avrei scritto io e lei ha riso. Poi abbiamo smesso di ridere. Il signor Fabrizi ha bussato sette volte alla porta. È entrato con un volto spaventato. Ha detto che è scoppiato un incendio al piano di sopra e dobbiamo scappare.


Appena mia madre udì quelle parole dalla bocca del signor Fabrizi mi guardò spaesata. Lei non aveva mai perso la speranza e non la perse neanche in quel frangente. Ordinò a me e a Merry di riempirci le tasche di tutto il cibo possibile, perché non sapevamo ancora dove saremmo scappati. Fra le mani di mia madre non c’era posto per i ricordi e quindi lasciammo in quel nascondiglio le fotografie di mio padre e quelle della mia infanzia. Racimolò i nostri vestiti con un ordine maniacale, come se si fosse preparata a quel momento per intere settimane. Poi ci aiutò ad uscire dall’alloggio segreto. Prima Merry che era la più piccola e leggera, poi me, la signora S. ed infine lei. Iniziammo tutti a correre come matti. Merry era aggrappata alla gonna di mia madre e saliva tre gradini alla volta. Io le precedevo di qualche passo mentre la signora S. era già quasi in cima alla scala. Il signor Fabrizi entrò per primo sfondando la porta e noi lo raggiungemmo con il cuore in gola. Mia madre respirava affannosamente, entrò in casa e si avviò in fretta verso la porta d’uscita.
«Siete giudei vero?».
Io fissai mia madre. Lei si è fermò e lasciò cadere tutto quello che aveva fra le mani. La voce proveniva da dietro le sue spalle ma lei non osò voltarsi. Merry cercò in ogni angolo una traccia dell’incendio.
«Non c’è nessun incendio, piccola- disse mia madre con un filo di voce- non è vero signor Fabrizi?».
L’uomo che aveva parlato uscì dall’ombra. Dalla voce l’avevo immaginato molto diverso. Era grasso, basso e stempiato. Con lui c’erano altri due poliziotti. La signora S. tornò in casa. Lanciò un’occhiata carica d’odio al Signor Fabrizi e si scagliò su di lui.
«Bastardo, li hai chiamati tu! Sei un animale...- con le unghie lo graffiava in faccia e sul collo- Sei una carogna!!!», continuò fino a che i due poliziotti non la presero in disparte e la misero a sedere.
«Complimenti, delle autorità di stato che si prestano al rastrellamento degli ebrei...», ebbe il coraggio di dire mia madre prima che i poliziotti ci portassero sulla camionetta parcheggiata per strada, fuori dalla mia casa.
Rispondendo alle loro domande non entrammo mai nei particolari, rischiando così di irritarli, ma non avevamo nulla da perdere. Ad un tratto apparve sulla soglia di casa mia il generale Ghini, comproprietario del negozio della signora S. Cercò di convincere i poliziotti a non arrestarci, ma tutto sembrò inutile.
«Mi spiace ma abbiamo avuto ordini dall’alto», sembrava la sola risposta che sapesse dare l’uomo grasso che stava seduto a fare domande. Non c’era via di scampo per noi; la situazione precipitava di minuto in minuto e tutto era sempre più atroce. Fummo portati fuori dalla casa e messi su un veicolo verde. La signora S. non si era ancora calmata e si divincolava fra le braccia del poliziotto che la stringeva. Il suo collega grasso le ordinò di togliere il cappello.
«Io non tolgo questo cappello, l’ho pagato caro!».
L’altro poliziotto prese il cappello di velluto rosso e lo gettò in una pozza di fango.
«Guardi signora che non andiamo in crociera!».
La signora S. tentò di scendere per raccogliere il copricapo, ma il veicolo si avviò imboccando la strada che portava nel nostro campo di frumento.
«Quando Ghini verrà da noi mi rimborserete anche quello e vi pentirete di essere nati!», borbottò ancora lei.
Mentre percorrevamo il tragitto sulla camionetta, ondeggiando violentemente sulla strada sterrata, mi convinsi, perché allora ero ottimista, che un giorno saremmo tornati tutti a casa sani e salvi. Magari con qualche ferita nel corpo e nello spirito, ma con tante storie da raccontare ai nostri amici.
In qualche ora raggiungemmo il campo di Fossoli, dove ci assegnarono delle stanze insieme ad altri ebrei rastrellati dalle loro case. Rimanemmo fissi in quel posto fino al giorno in cui i cristiani festeggiano il Natale. Poi, una mattina di dicembre, i fascisti svegliarono noi quattro e quelli che dormivano nella nostra stanza e raggiungemmo la stazione ferroviaria di Modena. La vera sofferenza iniziò quando ci misero sul vagone di quel treno. Noi quattro fummo fra i primi ad entrare in quella scatola metallica senza finestre né aperture. Fummo travolti da una folla di persone che, come noi, erano ignari della destinazione prefissata. Tutti con un biglietto di sola andata per il campo di Auschwitz. In un attimo il vagone si riempì e le ruote del treno iniziarono a muoversi senza che nessuno trovasse il disperato coraggio di scendere. Sembra assurdo ma speravamo ancora, perché non avevamo ancora capito niente. O forse non volevamo capire.
«Dove andiamo?», chiese Merry senza ottenere risposta. Nessuno se la sentì di dirle che era iniziato un viaggio verso l’inferno e che anche chi, come me, fosse riuscito a tornare a casa, sarebbe stato condannato a rimanere con la mente in quel posto per il resto dei suoi giorni.
Un bambino con delle lentiggini sul naso ci stava ascoltando. Aveva lo sguardo nascosto dalla coppola che aveva sul capo. 
«Quanti anni ha?», mi chiese puntando un dito verso Merry.
«Otto», risposi io. La piccola si era assopita con viso rivolto verso l’alto ed io la stringevo gelosamente contro il mio petto. Nelle ultime settimane, al campo di Fossoli, era dimagrita notevolmente, ma aveva conservato i suoi tratti sottili e la sua bocca rosa dalle estremità rivolte verso l’alto.
«Io mi chiamo Pietro,- riprese il bambino a voce alta- ho sei anni...».
Mia madre gli chiese chi ci fosse con lui su quel treno.
«Mio nonno», rispose indicando un uomo vecchio e stanco appoggiato alla parete del vagone. L’uomo si voltò verso di noi grattandosi la barba bianca e facendoci un cenno di saluto. Non mi ero ancora accorto che il bambino con le lentiggini stava fissando con sguardo affamato le focaccine che io e Merry avevamo nelle tasche. Sicuramente erano giorni che non metteva niente sotto i denti, ma, nonostante tutto, non cercò di approfittarne e prendermi di nascosto un pezzo di pane. Ad un tratto capì che lo stavo osservando, allora affondò le manine nelle tasche della giacca e tirò fuori delle monetine arrugginite.
«Ho degli spiccioli,- mi disse con sguardo supplichevole- vuoi scambiarle con un pezzetto del tuo pane?».
D’istinto misi le mani in tasca e feci per dargli ciò che mi aveva chiesto, ma mia madre afferrò la focaccia e me la rimise in tasca. Capii subito il motivo di quel gesto.
«I soldi non ci servono, mentre il cibo sì», dissi a Pietro quasi vergognandomi.
Nel frattempo Merry si era svegliata stiracchiandosi. Sentì le ultime parole pronunciate da Pietro. Estrasse una focaccia alle olive fatta dalla signora S., la divise in due parti e il pezzo più grande lo diede al nostro piccolo amico.
«È vero- disse Merry- non ci servono i tuoi soldi, tienili pure».
Quando il treno si fermò scendemmo lentamente, con la fronte sudata per la febbre. Merry aveva tante cose da raccontare nel suo diario:
Gli uomini neri ci hanno fatto scendere dal treno. Il mio nuovo amico Pietro e suo nonno sono andati a destra, giù per una discesa. Dicono che vanno a lavarsi, invece gli ebrei puliti vengono mandati in mezzo al piazzale dove si tolgono i vestiti e mettono una divisa.


All’entrata del campo ci stava aspettando il generale Ghini. Fra quei grovigli di filo spinato sembrava alquanto impossibile sperare di uscire vivi o, almeno, di mantenere alta la propria dignità di esseri umani fino alla fine dei propri giorni. Nessuno degli uomini di fronte a me era trattato come tale. Sui volti sconvolti che riuscii a scorgere nella nebbia fitta di quel pomeriggio, potei leggere l’insopportabile orrore che loro conoscevano già e che noi avremmo imparato presto.  
Noi “raccomandati” seguimmo la scia del generale Ghini in una stanza deserta, dove ci lasciarono per alcune ore.
Speravo di rivedere Pietro a pranzo, ma non ci hanno dato da mangiare. In questo brutto posto ci sono troppe regole. Gli uomini neri assomigliano a quelli dell’altro campo ma parlano quasi tutti una lingua straniera, tranne il signor Ghini che parla ancora italiano. A volte però le regole cambiano a seconda dell’umore di chi le fa. Un giorno ci si lava e un altro no. Un giorno si mangia e un altro no. Un giorno si lavora e un altro no. Un giorno si vive. Un altro no.


Mi lascia stupefatto questo suo grado di consapevolezza, straordinario per la sua tenera età. Poi continua:
La signora S. è venuta di nascosto da me, questa notte. Ha messo delle teste d’aglio intorno al mio letto per tenere lontano gli spiriti cattivi e i pidocchi. Poi ha aperto la tasca del suo vestito per mostrarmi che era vuota. Ci ha passato sopra una mano e mi ha detto di soffiare delicatamente sull’orlo dell’apertura. Ha infilato la mano nella tasca e c’era una bambolina fatta con foglie di granoturco intrecciato. L’ha fatta apposta per me! Poi mi ha dato un bacio sulla fronte. Anche io le ho dato un bacio e lei ha pianto. Non mette più lo smalto sulle unghie da quando gli uomini neri ci hanno rapito. Mi ha chiesto se sapevo che le rondini volano ed io ho risposto di sì. Quando facevano il nido sotto il nostro tetto il mio papà mi chiamava sempre a vederle. Lei ha detto di sentirsi una rondine che sta per prendere il volo. Io le ho ricordato che in questa stagione le rondini muoiono se non sono già emigrate. Inizio a pensare quella non fosse una delle sue battute. Così se n’è andata parlando da sola.


Io, dalla mia stanza, sentii la porta della camera di Merry sbattere. Poi la signora S. uscì all’aperto coprendosi il capo con una coperta e, rasentando il muro, arrivò al cancello d’uscita. Era elegante anche così, magra e indebolita. Parlava davvero da sola e rideva nel pianto. Si voltò verso di me, ma non mi riconobbe. Era davanti al cancello dove venivano scaricati i prigionieri giunti in treno. Le guardie sembrarono averla lasciata sola come un attore sul palcoscenico nella sua ultima recita. Io, nella mia stanza, smisi di raccogliere le briciole da terra per vedere quella scena. La signora S. era sola in mezzo all’appellplatz con la coperta allargata sopra la testa come stesse per prendere il volo. Poi si mise a correre rapidamente verso la libertà. Lei doveva andarsene, lei era la signora S.
Arrivata sulla soglia dell’inferno si alzò da terra e si tuffò sulla strada che portava alla salvezza. Una guardia, dalla torretta, gridò qualcosa ad altri due soldati che stavano facendo la ronda. Uno aveva un mastino al guinzaglio. Si precipitarono verso la signora S. e spararono tanti colpi sufficienti ad ammazzare tutti noi internati. Io non distolsi lo sguardo. Per non dimenticare.
Merry non seppe mai queste cose, ed è meglio così. 
Sapevo che la conoscenza del generale Ghini non ci sarebbe servita a molto, in mano ai tedeschi. Ci era stata utile per non finire nella docce insieme ai nostri coetanei, ma non sarebbe bastata ad evitare la morte. Pensavo che Merry non potesse comprendere fino in fondo la tragicità della situazione, ma rileggendo i suoi pensieri sul quaderno sono convinto che sapesse meglio di me quello che stava accadendo.
Gli uomini neri hanno portato via la mamma di Ste. Lei mi ha detto che andava a lavarsi alle fontane che stanno in fondo al piazzale d’entrata. Sono passate tre ore da quando l’hanno portata via. Oggi la signora S. non si è fatta vedere ma ho giocato tanto con la sua bambolina. 
Poi arriva la pagina nera del diario, quella che svela la mia colpa, la pagina che ha segnato per sempre il corso della mia vita e la fine di tutte le speranze. Ogni volta che arrivo a questo punto chiudo il quaderno rosso e vado a dormire. Non ho mai sufficiente coraggio per leggere quelle frasi pasticciate sulla pagina. Ma questa volta lo farò. Voglio ricordare quei momenti di terrore e risentire il gusto acido del senso di colpa. Stavolta non posso evitarlo.
La mamma di Ste non è ancora tornata ed io ho tanta paura che le sia successo qualcosa di brutto. Lei mi ha raccomandato di fare la brava e di essere forte. Questa sera io e Ste ci vedremo qui in camera mia, quando c’è buio. Lui vuole andare a rubare il cibo nel posto dove mangiano i cattivi e i loro figli. Io ho paura che ci scoprano e che ci mettano in castigo, ma Ste dice che se staremo attenti nessuno potrà vederci a quell’ora. Ha già preparato le coperte verdi da metterci sulla testa per nasconderci.


Faceva davvero freddo quella notte e la camera di Merry brulicava di insetti. La coprii proprio come quella sera in cui la salvai. Arrivammo senza essere scoperti fino alla strada che portava a quello che chiamavamo “il camino”. Continuammo fino allo stabile dove alloggiavano i generali e le loro famiglie. Ricordo che Merry era eccitata all’idea del rischio. Sembrava di giocare a nascondino con l’adrenalina alle stelle. Lì non si trattava di perdere una partita, ma qualcosa di ben più grande. Nella zona dove ci trovavamo non c’erano guardie, dovevamo solo stare attenti alle torrette. Quando entrammo nel refettorio ci travolse un odore inaspettato di cialde fragranti e di miele. A quell’ora dormivano tutti. Una guardia stava passeggiando in fondo al corridoio. Scivolammo all’interno di una stanza buia, aspettando che la guardia passasse. Merry tremava di freddo e mi faceva dei grandi sorrisi.
«È passato l’uomo nero?», mi chiese spostando il peso del corpo da una gamba all’altra.
«Non ancora. Rimani sempre con la coperta sulla testa», risposi io.
Rimanemmo ancora qualche secondo in quella stanzetta e poi tentammo la fuga. Non smettemmo di correre nemmeno per un attimo. Merry mi stringeva la mano fino a frantumarmela. Arrivammo alla porta della cucina senza credere di avercela fatta. La porta si stava per chiudere quando un’altra guardia spuntò dall’altro corridoio. Se non avesse sentito i nostri passi, senz’altro non gli sarebbe sfuggita la porta che si muoveva. Trascinai Merry dietro ai fornelli.
«Ci hanno visto, credo», dissi.
«Chi?».
«La guardia».
«E adesso cosa facciamo?».
«Cerchiamo di mangiare il più possibile prima che arrivi».
Così aprimmo la dispensa e ci mettemmo in bocca tutto il pane che ci stava. Merry passò alle brioche con un’avidità commovente. Non mangiava da almeno due giorni. Dicendo della guardia in realtà avevo sperato fino all’ultimo che non ci avesse visto o che avrebbe lasciato perdere. Ma, in fondo, sapevo che non sarebbe andata così. La porta delle cucine si spalancò e una torcia elettrica iniziò a setacciare ogni angolo. Presi Merry e la infilai sotto il lavello. Mentre cercavo di strisciare rapidamente fuori dalla porta, una mano grande mi afferrò per una gamba e mi sollevò da terra. Rimasi a testa in giù, mentre un tedesco mi urlava ferocemente in faccia sputacchiando qua e là. Mi condusse in un grande stanzone con delle fotografie di soldati e delle medaglie incorniciate. Mi lasciò cadere a terra ed urlò qualcosa nel corridoio. Arrivò un altro uomo che fortunatamente parlava la mia lingua. Non capii subito che era il generale Ghini. Lui mi riconobbe e si avvicinò a me. Parlò con la guardia e poi tornò da me.
«Mi sta dicendo che non eri solo! Eri con Merry vero? Dov’è?», mi chiese Ghini.
«È rimasta in cucina», risposi sottovoce.
«Ma cosa ti è saltato in mente stupido idiota? Prega il tuo dio che io riesca a convincerli che stavate solo giocando!».
La guardia se ne andò sbattendo la porta dell’ufficio. Le parole del generale non lo avevano convinto. Lì iniziai davvero ad avere paura. Pensai che non avrei avuto più scampo e che, per colpa mia, ne sarebbe andata di mezzo anche Merry. Accompagnai il generale nelle cucine. Mi chinai sotto il lavello per afferrare la mia piccola amica, ma non c’erano che briciole e frammenti di pane. Rivolsi al generale uno sguardo terrorizzato.
«Allora, dove diavolo l’hai cacciata?», mi chiese.
«Era qui...».
«Voglio sapere dove è ora, non dove era prima!».
Io mi misi a piangere. Lui mi prese per un braccio e mi portò nella mia stanza.
«Stai nascosto qui fino a che non tornerò! Intesi?».
Io feci di sì con la testa e mi misi sotto al letto.
Merry doveva essersi nascosta da qualche parte, non seppi mai dove, a scrivere sul suo quaderno con dei frammenti di carbone.


La signora S. mi ha detto che quando il cuore batte forte e non riesci a sentire niente che non siano le sue pulsazioni, allora bisogna credergli perché lui non mente mai. Allora io ho creduto di avere paura e di essere in pericolo. Ho raccolto le mie cose e sono scappata via in un nascondiglio. Sono riuscita a fuggire dai cattivi. Però il mio amico Ste è stato catturato e adesso gli faranno del male. Non è giusto che venga punito solo lui. Anche io ho rubato il cibo dalla dispensa ed ho preso anche un po’ di brioche per quando torneranno la mamma, la signora S. e Susanna. Adesso però devo andare a salvare Ste perché gli ho promesso che da grandi ci sposeremo. Nella mia casa c’è posto anche per i bambini che nasceranno. Ho un po’ paura di morire, però non piango, devo resistere. E poi

La pagina fu lasciata così, incompiuta, quando il generale Ghini probabilmente la trovò e la trascinò in un luogo sicuro. Ma non era questo che lei voleva, non era questo che si era preparata a fare. Corse nel piazzale mentre io stavo per essere portato via. Era buio pesto e due guardie mi condussero sul retro di uno stabile. Continuavano a parlare fra di loro ma io naturalmente non capivo nulla. Respiravo  irregolarmente e la gola mi pulsava sempre più forte. Tutto era finito per me, pensai che avrei raggiunto la signora S. Il fucile della guardia più alta si abbassò verso di me. Non guardavo nulla, aspettavo lo sparo e basta. Ma non sarebbe andata così. Merry stava canticchiando la solita canzoncina proprio dietro le spalle delle due guardie. Il fucile tornò verticale.
«Non è colpa sua, sono stata io a portarlo nelle cucine!».
Nel frattempo il generale Ghini comparve accanto ai soldati, ma troppo tardi. Loro preferivano ammazzare lei. Una della due guardie, quella più bassa, urlò qualcosa contro di lei. Merry si avvicinò lentamente al muro. Le sue scarpette blu mossero piccoli passi nel vicolo polveroso. Mi guardò e mi sorrise complicemente. Quella ragazzina aveva più coraggio di quanto ne avessero quelle due guardie messe insieme. Il soldato basso puntò le canne del fucile contro la testolina bionda di Merry. Lei mi gettò ancora un’altra occhiata, ma senza sorridere. Quel fotogramma rimase fermo ancora qualche secondo, finchè la guardia non distolse il fucile. Non era abbastanza crudele per farlo. La seconda guardia, alta e bionda, lo scansò con uno spintone e impugnò il fucile. Mirò, distolse lo sguardo e premette il grilletto. Una, due, tre volte. Io sperai che facesse lo stesso con me, ma rimase a guardare Merry e la sua bambola di granoturco. Io tentai di correre verso di lei, ma il generale Ghini mi trattenne. Il soldato basso era già sparito, mentre il biondo fissava ancora Merry a terra. Cercò di capire cosa avesse fatto, ma non ci riuscì. Nel suo fucile c’era ancora un colpo e non andava sprecato. Io piansi fino a farmi scoppiare le tonsille. Fu colpa mia, ne sono ancora convinto. Quella guardia usò bene l’ultimo colpo rimasto. Si avvicinò al muro adiacente a quello dove mi trovavo io. Rivolse le canne verso di sé e sparò.


Qualche giorno dopo sentii delle urla nell’appellplatz : «The war is over, the war is over». Ma io non capivo cosa significasse. Era tutto finito, ma a noi cosa importava? Tutti noi, ormai, avremmo iniziato a cadere sempre più rapidamente nel vortice della solitudine e della paura. Quando ripenso che Merry mi salvò la vita, provo un senso di orrore e di gioia. Ma l’orrore è sempre più forte, sovrasta tutto il resto. La verità è che nessuno ha mai accettato che lei ci abbia lasciati soli a combattere con i problemi quotidiani e con la solitudine. Nessuno la perdonerà mai per essersene andata così, lasciandoci soli con noi stessi. Ma io l’ho perdonata, perchè lei mi ha salvato dalla morte e ha permesso che rimanessi in vita. Una vita che forse non è stata vissuta al meglio, una vita che a volte ho rifiutato, ma comunque una vita.


La prima volta che tentai il suicidio mi portarono al manicomio di Bologna. Avevo solo ventun’anni ed ero già stanco di vivere. Poi un giorno venne a trovarmi una signora trascurata e gracile, chiusa in un impermeabile di camoscio. Anche lei non aveva più voglia di vivere, anche lei era delusa e rassegnata. Troppe battaglie combattute e perse. Era la mamma di una bellissima bambina persa durante la guerra. La mamma di Merry. Avevo dato per scontato che fosse morta quel giorno di dieci anni prima, uccisa da quello sparo. Anche i soldati la credettero morta e la lasciarono, ferita, sulla strada di fronte a casa mia. Parlammo molto quel pomeriggio e ci scambiammo opinioni piangendo la stessa persona. Due tragedie possono creare una speranza. E insieme ce l’avremmo fatta.
Tre giorni dopo io uscii dall’ospedale psichiatrico e mi trasferii nella casa di Marta.
Arrivò lentamente anche il 1968 e, mentre i ragazzi erano impegnati a combattere le loro battaglie per l’ indipendenza, io mi trovavo rinchiuso in camera a lottare per la sopravvivenza, rischiando ogni giorno di essere autodistrutto dalla mia stessa natura, troppo fragile e passiva. Ma un giorno Marta riuscì a convincermi a partecipare ad uno dei suoi patetici tentativi di togliermi dalla depressione. Era una serata di ballo ed io mi misi il vestito più bello cercando di farmi forza. Quando mi trovai nel centro del salone mi sentii ancora più solo di prima, nessuno sembrava curarsi di me e nessuno mi invitava a ballare. Pensai che era stata una pessima idea scendere e che fosse meglio tornare fra le mie lenzuola a compiangermi. Ma tutto cambiò quando notai una giovane ragazza appoggiata ad un pilastro di marmo. Aveva dei lunghissimi capelli biondi e un vestitino corto. Fumava una sigaretta e faceva i cerchi col fumo. Io la stavo contemplando quando gettò in terra la sigaretta, la schiacciò con il tacco dei suoi sandali e si diresse verso il centro del salone, facendosi strada fra la gente che ballava. Senza che me ne rendessi conto me la trovai di fronte e stava proprio guardando me.
«Scusi, lei è Stefano Terracini?», mi chiese.
«Sì, sono io».
«Mi dica pure... È intenzionato ad acquistare uno dei miei quadri?».
«Come? No.... no ci deve essere un equivoco».
«Ma lei vive in questa villa?».
«Sì», risposi senza capire ancora cosa cercasse da me e chi l’avesse mandata.
«Allora è proprio lei che sto cercando...».
«...».
«Mi ha mandato da lei una bambina che ho visto fuori in cortile. Ha detto che lei era interessato ad una delle mie nature morte».
Quando me la descrisse capii subito chi fosse quella bimba. Perchè è vero che quella sera c’erano decine di piccole ballerine, ma non tutte erano bionde e ricce, poche avevano un vestitino a fiori e delle scarpette blu e solo una poteva avere fra le braccia una bambolina di granoturco intrecciato. La piccola era lì per indicarmi la donna giusta per me ed io non potevo non piangere.
«Va tutto bene? Conosceva forse quella bambina?», mi chiese la giovane donna bionda.
«No, no.... », risposi imbarazzato, ma poi la invitai a ballare.
Ora siamo sposati da trentacinque anni.
Marta è morta nel novembre di due anni fa. Ma ora penso al presente e a quel che mi aspetta. Non ho ancora ritrovato la voglia di vivere che avevamo io e Merry, ma il tempo passa e, tornare a certi pensieri, è sempre meno doloroso da quando è nata la piccola Silvia e sono diventato nonno. Adesso sto provando, se è possibile, ciò che è più vicino alla felicità. Cerco gli occhi della bambina che mi ha salvato la vita sul viso della mia nipotina e, quando la guardo, li ritrovo uguali e immutati.
Ora sono sicuro: se Merry avesse saputo quello che sarebbe sfociato dal suo gesto, certamente lo avrebbe compiuto lo stesso.
Grazie, Merry.
 Sergio Boffetti