venerdì 23 dicembre 2011

L' Ufficio insulti di Agostino Palmisano augura Buone Feste (a modo suo...)

Credo proprio che la voglia di farci regali e regalini ci sia passata del tutto. Non so voi ma al sottoscritto me medesimo il Natale ha sempre messo tristezza al solo scorgere una fila furiosa ad una cassa qualsiasi di un negozio qualsiasi. Quelle file fatte da gente, compreso me medesimo, bene inteso, costretta a regalare qualcosa. Quest'anno poi il Natale sembra proprio una presa per i fondelli, e non che gli anni passati sembrasse diverso. Quest'anno però è peggio, non abbiamo più Beato Angelico da Arcore a tirarci su il morale instillandoci la speranza, il desiderio folle dell'esilio volontario. Senza di lui mi vien quasi voglia di rimanere in Italia e questo mi rattrista ed angoscia alquanto. Se rimango adesso è finita, vorrà dire che dovrò lottare per la pensione a settant'anni come tutti. Anzi peggio. Secondo i calcoli miei, dell'Inps e del nuovo governo dovrei riuscire a maturare qualcosa di decoroso quando soffierò le ottantadue candeline. Avete capito bene, ottantadue candeline che forse non avrò più la forza di spegnere.


E tutto lo sconforto che mi prende è derivato dal fatto che all'Apocalisse nazionale imminente mi ci ero quasi affezionato, la vedevo come una nuova possibilità, una chance per quelli come me che hanno sempre fatto la scelta sbagliata e forse solo ora, nel caos e nella disperazione, potevano cercare un cambio di rotta, un colpo di culo insperato per portare a casa un risultato impossibile da ottenere in condizioni di civiltà minima e normale vita sociale. Io la chiamo la GENEROSA FORCA CHE TI IMPICCA PER LE PALLE: non ti uccide ma ti toglie fiato e speranza lo stesso.


Però vorrei finire cercando di tirarvi su il morale, in fondo è sempre Natale e un po' di educazione la conosco anch'io. Quindi passiamo in rassegna quelli che potrebbero essere i buoni propositi per l'anno nuovo, ormai in agguato in fondo al prossimo vicolo buio e sporco. Tanto per cominciare il 2012 ci sarà la fine del mondo e, se Dio vuole, le forme di vita non vegetale che festeggeranno il successivo San Silvestro si spera siano solo rettili, insetti e procarioti assortiti. Se ciò non dovesse accadere, e i soliti pessimisti son già al'opera con preghiere e ricerche scientifiche alla mano, il mio unico buono proposito dell'anno sarà quello di migliorarmi e sgrezzarmi nella raffinatissima arte della boxe. Non voglio altro, voglio solo essere in grado di abbattere ogni eventuale scocciatore mi si pari davanti e, secondo le stime più serie e attendibili, gli scocciatori dovrebbero aumentare. Se invece dovessi consigliare ad altri un buon proposito è quello di cominciare a scrivere o, se già lo fanno, di smettere di farlo. Credo sia l'anno buono perchè ci sia un vero ricambio nel "panorma asfittico della cultura italiana". Logicamente il prete dice cosa fare, non di fare come lui quindi voi smettete o cominciate pure, io continuerò beatamente a fare quello che voglio anche perchè, permettemi l'espressione, io con voi non ho nulla a cui spartire.


La faccio breve e, augurandovi un buon Natale e un felicissimo e ultimissimo anno nuovo, chiedo ai miei amici giù in paese che, se proprio non sanno cosa regalarmi, possono fare una colletta e prendermi un bel machete.
Auguri.


mercoledì 30 novembre 2011

Diletta Fabiani per Racconti da premio: "Sete"

Oggi vi proponiamo un racconto arrivato secondo al concorso "Piccolink 110 e Lode", edizione 2009, organizzato dal giornale Il Piccolo di Faenza. La nostalgia e l'amarezza di una storia d'amore finita in lievi ma intensi schizzi. Tocchi poetici  di una scrittura scarna che sa raccontare l'amore senza sdolcinature.







SETE

di Diletta Fabiani


<< Come sai tutte queste cose di me? >>
Appollaiato su un alto sgabello, immerso nella luce di miele del locale, Rico le aveva sorriso divertito.
<< So sempre molte cose sulle persone interessanti. >>
La sua stessa sfrontatezza l'aveva sorpresa. L'aveva fissato mentre ridacchiava ancora e sorseggiava birra, l'aveva rubato con gli occhi.
Attraversando la strada, mani le avevano nascosto il mondo.
Mani che conosceva. Ne aveva tastato gli anelli, le unghie un po' mangiate; ne aveva sentito i calli ed il vago odore di fumo e fazzoletti alla menta; aveva proseguito la corsa lungo i polsi, incontrando un braccialetto di pelle, un orologio.
Conosceva quelle mani. Da mesi. Da mesi ci girava intorno.
<< Vuoi fidarti di me? >> le aveva sussurrato all'orecchio Rico.
Aveva camminato cieca sulle strisce in mano a lui.
<< E se io adesso volessi dormire con te? >> le aveva chiesto, mentre la osservava dal basso della sua brandina.
Nel suo letto lei era rabbrividita. Nonostante il caldo, nonostante le finestre aperte sull'estate e sul traffico all'esterno e sulla musica troppo alta di qualche festa nei paraggi, aveva tremato d'anticipazione.
Lui la guardava nel buio ed i suoi occhi splendevano come le Pleiadi, tinti di una sfumatura di furbizia. Era salito sul suo letto come un gatto e lei si era schiacciata contro il muro, ogni respiro diventato improvvisamente faticoso e rovente.
Una pioggia di baci le era caduta sul viso, sulle spalle, ovunque.
A volte Vienna sa che non funzionerà per sempre. Lo capisce dai subitanei scatti d'ira, dalle urla di volta in volta più forti, dagli oggetti occasionalmente lanciati e sbattuti.
Lo capisce dalle occhiate alle altre donne, quelle più magre e più alte e più belle.
Lo capisce dai momenti rubati al loro tempo in favore di cose improvvisamente più importanti.
Ma a volte Vienna preferisce non parlare.
Come un sogno al limite della veglia, tutto è una magia così fragile.
Ci sono notti in cui il cielo è semplicemente perfetto, in cui tutta la vita è semplicemente perfetta.
Ci sono notti in cui il torace di Rico è caldo contro la sua fronte, notti in cui braccia intorno al suo corpo la fanno sentire protetta ed adorata; notti in cui ogni movimento è un'onda di piacere, una vibrazione di estasi; notti in cui le parole non sono mai abbastanza e nessuna parola è indispensabile di fronte a quegli occhi così belli.
Ci sono notti in cui Vienna non riesce a dormire e guarda Rico, lo osserva ancora ed ancora ed ancora. Ci sono notti in cui l'alba tarda a venire e le ombre indugiano sul corpo di lui, trasformandolo in mutevole tela.
Ci sono notti in cui la sete di lui sembra non avere mai fine.
“Cristo, Vi! Io non lo so come cazzo faccio a stare con te!”
Le parole fanno male, quel posacenere buttato a terra fa male. Quella sottile polvere grigia è un brutto presagio, esplode in una nuvola e ricopre tutto quello che incontra in una corsa verso l'oblio.
Rico impreca di nuovo tra i denti, ma poi alza lo sguardo su di lei e possessivamente la tira a sé e la stringe, la stringe come se non ci fosse un domani; quelle mani che ha sempre conosciuto così bene le affondano nella nuca, nelle scapole, tra i capelli, un dolore che è un tormento e che è dolcezza.
Non tenermi mai lontana da te.
Vienna non parla, Vienna tace, le parole le rimangono morte in gola ma la verità è quella.
Non ci sono altri posti in cui voglio stare.
Un muretto di pietra sotto il suo sedere, un bacio rubato a fior di labbra. Una mano casualmente appoggiata alla sua gamba, il gesto intimo di un amore che non ha bisogno di conferme. Un cuore insieme ad un altro cuore, semplicemente, come gli elementi di una costellazione nella loro figura nel cielo.
Voglio stare qui per sempre.
Sotto le stelle, continuamente sotto le stelle, tutti i suoi ricordi sono ammantati del blu della notte. Ogni singolo particolare splende, irrimediabilmente brillante.
Voglio amare solo te per sempre.
Vienna lo sa, l'ha sempre saputo.
Eppure tace, tace. Silenzio, ancora silenzio, perché a volte non c'è risposta migliore, perché a volte comunque nessuna parola è utile e quindi è meglio tenersele, non sprecare tempo per parlare ed osservare e basta.
Non importa quello che Rico sta dicendo. Parole che dipingono una fine. Parole banali, parole che conosce. Non c'è modo di evitarle, Vienna ne è consapevole, da tanto.
Vienna guarda Rico perché non vedrà più niente di così caro ed amato per lungo, lungo tempo. Guarda Rico ed in ogni poro della sua pelle ci sono tutti i loro momenti, la costellazione della loro vita insieme, c'è un desiderio che spilla, acqua da una fonte inesauribile che sgorga e sgorga e sgorga, fredda come ghiaccio, desiderio nelle mani.
Nel tuo cuore, come puoi smettere di amare il ricordo di chi hai amato quando lo amavi?
Di te avrò sempre sete.


sabato 26 novembre 2011

"Il corvo" di Stefano di Stasio per Racconti da premio


Dopo lunga pausa determinata dai vari impegni fieristici, ritorniamo alla nostra rubrica con un lavoro classificatosi finalista al concorso Racconti creativi per Creativa edizioni. Il corvo suscita sempre un'immagine inquietante, legata anche al fatto che è anche un animale particolarmente intelligente che sembra scrutare l'uomo. Impossibile non ricordare le favole di Esopo, Fedro e La Fontaine. Impossibile non ricordare il celeberrimo corvo di Poe.
Questo racconto suggestivo ci propone un istante di condivisione dell'esistenza tra l'uomo e questo enigmatico animale in un freddo e lontano paesaggio nordico carico di realismo e umanità.

Il Corvo

di Stefano di Stasio


In bicicletta nella tormenta. Come riuscivano a non cadere? A terra la neve stava ghiacciando. Osservavo meravigliato quegli studenti che andavano in bici mentre fioccava. Mi coprii il capo con il cappuccio della giacca per ripararmi dal freddo. Era l’inizio di dicembre ma già in Svezia la temperatura era scesa a meno venti gradi Celsius. Avevo accolto l’invito della mia amica Yvonne che stava organizzando una conferenza. Ero andato per darle una mano. Mi aveva colpito il salone degli arrivi dell’aeroporto di Kopenhagen-Karlstrup. In alto c’era un enorme orologio. A destra la biglietteria a sinistra l’ufficio di cambio. Una scala e già eri sul binario per prendere il treno per la Svezia. Un tunnel sotto il braccio di mare che separava la Sjælland, l’isola di Kopenhagen, dalla penisola scandinava. Un tunnel e un ponte avevano definitivamente relegato nel settore dei miei ricordi di gioventù i traghetti che c’erano trenta anni fa. Yvonne era venuta a prendermi alla prima fermata del treno in terra Svedese. Appena sceso dal treno mi ero reso conto che camminare sarebbe stata una sfida. A ogni passo, a ogni minimo movimento, rischiavo di scivolare su uno strato di ghiaccio. Era notte e i fiocchi di neve venivano giù fitti e grossi. Diffondevano nell’aria secca la luce gialla dei lampioni rischiarando il piazzale di sosta della stazione. Il tratto in auto mi sembrò breve. Ogni parola scambiata con la mia amica pareva ovattata. Arrivammo a Lund. Ci accolse il fumo della centrale termica. Dopo un brindisi di benvenuto mi congedai da lei.

In albergo non si vedeva anima viva. Era già tardi. Presi la chiave in portineria e raggiunsi la mia camera. La notte passò lentamente. Dalla spaziosa vetrata posizionata di fronte al mio letto attesi la luce del giorno. Tardò a arrivare. Era l’inverno del Nord. Una luce d’emergenza e un bip-bip distolsero la mia attenzione dalla linea dell’orizzonte. Era lo spalaneve che aveva ripreso a lavorare. Mi vestii in  fretta e raggiunsi la sala della colazione. Sulla porta senza maniglia c’era un cartello che diceva “Per aprire mostrare la chiave dell’hotel”. Pensai a qualche stregoneria tecnologica dell’ ultim’ora. Estrassi dalla tasca della giacca la chiave con la sua targa di bronzo pesante e cominciai a sbandierarla davanti all’ingresso. Però era strano, non vedevo nessuna telecamera. Continuai così per qualche minuto. Niente, la porta non si apriva. Nel tunnel del centro commerciale attiguo all’hotel vidi da lontano avanzare due uomini. Erano vestiti in tuta di lavoro. Intirizziti dal freddo venivano a prendere un caffè. Mi feci da parte. Uno di loro, senza curarsi minimamente del cartello sulla porta, si accostò al lato sinistro vicino ai cardini e premette qualcosa. Mi sentii un incapace. Come ebbi modo di verificare nei giorni seguenti, tutte le porte di quella regione della Svezia erano equipaggiate di una grossa tavoletta metallica che funzionava da apri porta automatico. Era una soluzione intelligente. Così anche se avevi le mani occupate, la porta si apriva da sola e potevi entrare senza lasciare il tuo bagaglio.

Dopo la colazione decisi di fare quattro passi. Era domenica. Raggiunsi in autobus il centro storico e da lì la cattedrale. Era dell’anno Mille. All’interno c’era un grande orologio tutto fatto di legno. Fui colpito dal fatto che alcuni ragazzi distribuissero tazze di tè e caffè all’interno della chiesa. Mentre percorrevo la navata destra incrociai degli individui vestiti in abiti talari. Erano giovanissimi. Poi notai una cosa strana. C’era una donna vestita coi paramenti sacri. Che strano! Pensai che fosse una religiosa di qualche ordine particolare. Ancora una volta, mi sbagliavo. Erano le undici del mattino e cominciò la funzione religiosa. La donna salì sull’altare e iniziò a dir messa. In Svezia c’erano anche le sacerdotesse. Mi sembrò giusto. Pari opportunità. La celebrante lesse la liturgia e si soffermò sulla lettura di un testo sacro. Poi si interruppe. Che cosa aspettava? All’improvviso da un pulpito attaccato a metà della navata di sinistra si udì una giovane voce maschile. Era uno dei sacerdoti che avevo notato poco prima che spiegava l’omelia. Tutti i fedeli si girarono sulla loro sinistra per osservarlo meglio. Non capivo una parola di Svedese, ma dal tono si intuiva che il giovane prelato stava severamente arringando i convenuti sul messaggio evangelico. Si fermava, rimproverava, spiegava. Quando l’omelia fu finita, decisi di uscire anche se la cerimonia stava continuando. Nel parco di fianco alla cattedrale, mi divertii a camminare sullo strato soffice di neve. Scattai qualche foto alle statue che rappresentavano eroi nazionali. Poi su un mucchio di carbone e torba notai un gruppo di corvi. Sembravano interessarsi a me. Mi osservavano e poi comunicavano fra di loro. Chissà che cosa avevano da dirsi.

C’era un museo lì vicino. Entrai. La signorina all’ingresso mi illustrò la tariffa. Faceva la pubblicità di due libri sulle attività archeologiche condotte in un sito non lontano, situato in quella regione della Svezia meridionale, che si chiamava Uppåkra. I testi erano redatti dai professori che avevano curato il recupero dei reperti e stampati dall’editore dell’università. Erano in Inglese. Li acquistai cercando di tirare sul prezzo, ma fu inutile. Uno era dedicato alle monete che erano state rinvenute nel corso di vari scavi. Si intitolava Treasures in Skåneland. E così venni a sapere che quella parte della Svezia era stata a lungo sotto la dominazione dei re di Danimarca e che ogni re cercava di battere la sua moneta. Ma non avevano argento e oro a sufficienza e, per questo motivo, alla fine coniarono monete di rame che, tuttavia, non durarono a lungo. Era anche simpatico il fatto che, come in una lite di famiglia, ogni volta che subentrava un nuovo regnante dichiarava fuori corso le monete precedenti e sequestrava tutti i fabbri in grado di coniare monete per essere sicuro che fossero battute solo le sue. L’altro libro era più interessante, Barbaricum. Parlava di reperti archeologici dell’età del ferro. Alcuni di quei reperti erano esposti nella sala a piano terra del museo. Entrai nella sala, mi accolse una ambientazione multimediale dei fatti e dei luoghi. E così mentre il commento sonoro, fatto di vento e eco di grida, diffondeva dall’impianto stereo, un fuoco finto, dietro una parete di vetro, illuminava la stanza con i suoi bagliori palpitanti. Mi misi a osservare le punte di lancia e di ascia e i monili disposti in bell’ordine nelle teche. Nel sito di Uppåkra, nel corso di scavi recenti, erano stati rinvenuti i resti di un rito di festeggiamento sul nemico vinto. Era consuetudine dei popoli del Nord Europa nel quinto secolo, dopo avere ottenuto la vittoria in guerra, di riportare a casa tutto quello che erano riusciti a strappare al nemico vinto. Armi, merce preziosa, abiti, cavalli e prigionieri. Poi in una specie di rito orgiastico tutto questo veniva distrutto dalla popolazione dei villaggi. Così i prigionieri venivano impiccati, i cavalli affogati nei corsi d’acqua, le lance e le asce ridotte in pezzi. Perfino l’oro e l’argento, prima appartenuti agli avversari, venivano gettati nel fiume. Questo rituale venne in seguito definito “trionfo” dagli antichi Romani. Le cronache di Paulus Orosius, uno storico iberico dell’Anno Domini 417, fornivano i particolari crudi di questi riti. Nel mucchi di reperti del trionfo rinvenuti a Uppåkra c’erano delle punte di lancia ritorte e ossa umane. Nella stanza di seguito c’erano alcune bacheche con monili e collane. Molte erano di ambra. Un tempo gli uomini e le donne erano di statura più bassa rispetto a oggi. Così anche i gioielli erano minuti. La lavorazione era però precisa. C’erano motivi a onda, il serpente e l’orso, le rune. Di fronte ai gioielli c’era il cranio di una donna in una teca. Un’esecuzione. Nel cranio c’erano due buchi uno al centro e uno di lato. Gli esperti avevano ricostruito che questa poveretta era stata giustiziata, dopo essere stata immobilizzata in ginocchio, con due colpi di mazza. Uscii dalla sala, avevo bisogno di bere.

Nella caffetteria del museo lì vicino comprai un dolce alla cannella e un caffè. Uscii nel parco. Aveva ripreso a nevicare. Cominciai a mangiare con avidità ma il dolce era veramente grosso e dopo poco non ne ebbi più molta voglia. Mi guardai attorno. Da un muretto un corvo mi osservava attentamente. Lo guardai, mi guardò. Capii che cosa mi stava chiedendo. Staccai un pezzo del dolce di cannella e lo lanciai sulla neve. Il corvo non si scompose. Studiò ancora un po’ le mie intenzioni. Poi, per niente intimorito, volò basso e raccattò il suo pasto. Cominciò a beccare il pezzo di dolce. Continuai a mangiare per inerzia la mia ciambella. Dopo poco il corvo mi guardò di nuovo. Lo riguardai. Scambiammo veloci la sensazione di soddisfazione che condividevamo in quel momento. Lui, come me, era già sazio. Tuttavia a me non andava di sprecare il cibo avanzato. Anche lui era dello stesso avviso. Spezzai in due pezzi ciò che rimaneva nelle mie mani della ciambella. Lanciai verso di lui il primo pezzo. Saltellò sulla neve. Si avvicinò e prese il boccone con il lungo becco. Poi si girò. Si spostò, saltellando a piccoli balzi, verso il muretto. Arrivato nei pressi della base di questo, là dove i mattoni spuntavano dal suolo, affondò il suo capo nella neve. Quando riemerse nel becco non c’era più nulla. Che aveva fatto? Volevo essere sicuro di aver capito bene. Lanciai sulla neve l’ultimo pezzo di dolce. Ancora il corvo si avvicinò. Ancora raccattò il suo boccone. Con un saltello fece un dietro front. Si diresse questa volta verso un segnale stradale che era distante una decina di metri. Raggiunse la base del tubo di sostegno. Di nuovo affondò il capo nella neve fino a scomparire. Di nuovo riemerse senza boccone nel becco. Senza fretta si allontanò anche dal secondo nascondiglio. Tutt’intorno caroselli di fiocchi di neve impazziti nel vento celebravano, come in un rito ancestrale, il trionfo del gelido inverno che sopraggiungeva.






venerdì 4 novembre 2011

"Boris Pahor-Lojze Spacal.Paesaggi del'900". Un progetto che unisce Italia e Slovenia con il linguaggio dell'arte e quello della parola.

Inaugura domani 5 novembre alle ore 18 la mostra  "Boris Pahor-Lojze Spacal. Paesaggi del '900" nella chiesa di Santa Maria dei Battuti a Cividale (Ud). Nata da un progetto del Comune di Muggia e della Città di Capodistria, è stata diretta e coordinata da Barbara Negrisin.  Sempre all'interno della chiesa, domenica 13 novembre alle 17, si svolgerà una suggestiva lettura di brani scelti di Boris Pahor dall'opera "...Il mio indirizzo triestino". L'evento, una produzione del Comune di Muggia e del Teatro Stabile Sloveno di Trieste, è realizzato a cura di Tatjana Rojc e con la partecipazione degli attori Lara Komar e Janko Petrovec. Il progetto "Paesaggi del Novecento" punta i riflettori su due notevolissime personalità umane e artistiche quali Boris Pahor e Lojze Spacal, entrambe tiestini di nascita, con trascorsi personali anche a Capodistria e Pirano, legati da comuni esperienze di vita e dal comune impegno nell'affermare i valori della pacifica convivenza. Attraverso la pittura di Spacal e i testi di Pahor vengono indagati luoghi, travagli, desideri vissuti dagli autori; uno sguardo importante sul contributo della comunità slovena in Italia alla pittura e alla letteratura del Novecento.

http://www.comune.muggia.ts.it/notizie.php?c=7921

mercoledì 2 novembre 2011

Guido Araldo: IL MISTERO DI SALICETO. I Templari e la loro presenza in Piemonte, Liguria, Savoia e Nizzardo

Esce per Bastogi, con un corredo di numerose illustrazioni fotografiche, questo saggio particolarmente notevole in quanto, oltre a trattare con competenza l’argomento templare, sempre di grande interesse per il pubblico, propone  un attento studio su una località che ha destato notevole scalpore negli ultimi tempi: SALICETO in Piemonte, sulle Alte Langhe.
Questo paese ospita la chiesa rinascimentale di S.Lorenzo, in cui l’autore ha riconosciuto un ampio corpus di simbologie esoteriche del tutto inedite per una chiesa, con l'unico Bafometto al mondo e un insolito Ermete Trismegisto. Sono state inoltre evidenziate intriganti analogie all’interno della chiesa con Rennes-le-Chateau e la chiesa di Altare abbellita dal misterioso monsignor Bertolotti, che si trovò a gestire una ricchezza immensa, contemporaneamente al parroco di Rennes-le-Chateau, mentre il parroco di Saliceto restò vittima di un misterioso delitto. Ci sono poi enigmatici affreschi con simboli massonici rinvenuti in una cappella murata nell'adiacente castello e, in un vicolo, la più antica pietra al mondo attestante la presenza di “Francs-Maçons”. Proprio i suoi studi e le sempre nuove scoperte hanno richiamato l’attenzione di trasmissioni quali MISTERO di Italia Uno e la località sta diventando meta di sempre più numerosi visitatori e curiosi.
Il testo si apre con una breve ma completa introduzione ai Templari: la loro storia lunga due secoli e, più ancora, la loro straordinaria e capillare presenza in Piemonte, Liguria, Nizzardo e Savoia con una pratica guida paese per paese di tutti i luoghi in cui sia stata documentata la loro presenza. Seguono quattro capitoli dedicati a luoghi esoterici e persino magici ai piedi delle Alpi Occidentali e sulle Alte Langhe, là dove le Alpi si saldano all’Appennino:  l’ABBAZIA DI STAFFARDA “cuore dei Templari e dei Cistercensi”. La chiesta esoterica di SAN LORENZO a SALICETO, sulle Alte Langhe. Il CASTELLO DELLA MANTA che all’interno vanta una “cappella sistina cortese trecentesca” ai piedi del Monviso, in cui l’autore ipotizza reminescenze esoteriche e templari. La SACRA DI SAN MICHELE DELLA CHIUSA, un’abbazia tra le nuvole, epicentro dell’Europa antica, al centro del quadrilatero continentale formato da Mont Saint-Michel in Normandia, dal San Michele nel Gargano, da San Michele di Cuixa ai piedi dei Pirenei e di San Michele in Hildesheim nelle brume sassoni. Si ricollega al discorso del quadrilatero continentale il capitolo finale dedicato alla geografia templare in cui l’autore parla, tra l’altro di una importante complesso templare ancora inedito: l’antico monastero di San Pére de Rhodes In Catalogna.
Oltre all’argomento interessante, il volume è strutturato in maniera chiara e presenta uno stile leggero e godibile, di facile leggibilità e comprensione, caratteristico di questo prolifico autore che ha la capicità di infondere nei suoi scritti l'entusiasmo e l'amore di conoscenza che lo guidano nelle sue instancabili ricerche sul campo.

Astrid Pesarino

venerdì 21 ottobre 2011

"Honorata cortigiana" di Rosa Ventrella

Esce per Arkadia Editore, Honorata cortigiana, l’ultimo lavoro della scrittrice e studiosa Rosa Ventrella, un toccante romanzo storico sulla vita e gli amori della poetessa Veronica Franco.

Nella sontuosa Venezia del tardo Rinascimento la giovane e bellissima Veronica, istruita dalla madre, diventa "onesta cortigiana", frequentando, grazie alla sua bellezza e alla sua intelligenza, il mondo dorato di dogi, patrizi, ricchi mercanti e teste coronate quali Enrico di Valois, il futuro re di Francia.
Le "honorate cortigiane" costituivano, nella Venezia dei secoli d'oro, una categoria sociale oltre che professionale, nettamente distinta da quella delle comuni meretrici. Pur esercitando anch'esse la prostituzione, si distinguevano socialmente non solo perché potevano contare su lauti guadagni e protezioni influenti, ma anche in virtù della loro cultura e talento artistico e letterario, che erano libere di esercitare pubblicamente proprio grazie alla loro particolare condizione.
Divenuta la più ricercata delle honorate, Veronica coltiva anche la sua seconda passione: la poesia, che le apre le porte dei salotti culturali in cui intrattiene rapporti con i maggiori intellettuali del suo tempo, entrando nel novero degli scrittori dell'epoca. Vive ardendo, come lei stessa scrive in una delle sue Lettere, ma nessun amplesso rubato riesce a colmare un profondo senso di vuoto e solitudine che si sente crescere dentro, in una Venezia che vive una fetta importante della sua storia: le guerre contro i Turchi, Lepanto, la caduta di Cipro, la peste, i processi dell'Inquisizione.
Orde di improvvisati predicatori, visionari, frati indovini, animano le strade della città, annunciando oscuri presagi di morte e additando come responsabili le frotte di peccatori che imbrattano di lussuria le locande, dove aleggiano zaffate di sesso e vino che inebriano anche i giovani più pii, i vicoli e i ponti della città, dove le prostitute di malaffare adescano i loro squattrinati clienti, persino i banche delle chiese, dove le cortigiane honeste siedono in prima fila. E, mentre l'ignoranza del popolo va seminando pericolosi germi d'odio, Veronica conosce Federico, un giovane artista, allievo di Tintoretto, una creatura fragile e riservata, i cui occhi trasmettono una solitudine antica e il cui severo cipiglio vela lo sguardo di un'espressione impenetrabile. Nei suoi quadri, però, Veronica ritrova una passionalità travolgente, un lato oscuro che l'affascina e la fa innamorare. Per la prima volta la cortigiana scopre l'amore, ma, insieme, anche la delusione del rifiuto. Federico nasconde un segreto, una verità talmente pericolosa che, se svelata, lo condurrebbe a morte certa. Quando la città viene avvolta dal tetro velo della morte nera, tra l'acre odore dello zolfo usato per le fumigazioni e il puzzo delle pire di morti trascinati via dalle proprie case dai pizzicamorti, Veronica fugge a Roma, compiendo una scelta radicale che la porterà a cambiare tutto il suo mondo dorato. Con il suo ritorno a Venezia, sceglierà di affrontare una sorta di nemesi purificatrice assieme a Federico, perseguitati entrambe: lei, donna libera, come strega, lui, omosessuale, come abominio, entrambe capri espiatori della furia cieca dell'ignoranza.
Una scrittura ricca e colta, capace di farci cogliere profumi e acri aromi, contrasti di splendori dell'opulenta Venezia rinascimentale e ombre inquietanti del perdurante fanatismo medievale. Una storia d'amore insolita e toccante, una storia di intolleranza e pregiudizio per un'opera che coglie l'universalità che rende sempre attuali i grandi sentimenti dell'uomo.
Un libro sensuale e delicato allo stesso tempo, come la sua affascinante protagonista. Da non perdere.

Astrid Pesarino



mercoledì 19 ottobre 2011

Agostino Palmisano: BEEP e il sogno possibile

In base alla nuova legge bavaglio censuriamo l'articolo trasformandolo in un racconto surreale.


Premessa. Tutte le informazioni contenute in questo articolo mi sono state “trasmesse”, o meglio ancora “tramandate”, da un BEEP doc, il gentilissimo BEEP, che con la sua umana disponibilità ha permesso al sottoscritto di dire qualcosa di sensato. Grazie BEEP. 


Il 7 novembre 1961 i cittadini di BEEP, appena dietro BEEP, eleggono sindaco il signor BEEP, della lista civica BEEP (1950 voti). Il fatto ha tanto l'aria di essere una presa di coscienza della cittadinanza tutta contro la BEEP uscente e maneggiona che è sconfitta col suo astro nascente BEEP (1250 voti appena).

La cosa strana, però, è che, seguendo alla lettera le prescrizioni della legge elettorale allora in voga (la quale utilizza il cosiddetto "metodo frazionario" scelto proprio dalla BEEP poco prima delle elezioni - chissà perchè?), succede che il numero dei consiglieri è di 10 per i vincitori e 10 per gli sconfitti. Ciò vuol dire che la nuova amministrazione non può partire.

Succede poi che il Signore Eterno ci mette lo zampino per aiutare i suoi carissimi BEEP. Il consigliere di maggioranza BEEP muore, pare per avvelenamento, e al suo posto arriva il furbo di turno, il signor X (per rispetto ai parenti senza colpa) che, nemmeno il tempo di sedersi alla poltrona che ha già zompato di là. S'è, come diciamo dalle mie parti, svoltato la giacchetta e chi s'è visto s'è visto.

Così W la BEEP che, con i suoi 11 consiglieri su 20, può mandare a casa l'onesto e mite BEEP e re-insediare BEEP, astro ritornato a splendere con l'inganno.

Voi moderni mi direte: vabbè, sono cose normali ... la politica è sempre stata così ... che dobbiamo farci? E invece no, miei cari moderni pirla senza spina dorsale.

I BEEP del 1961 sono caldi e combattivi.

Il 3 gennaio parte loro un embolo collettivo. Mettono su il finimondo, sprangano il comune, insultano i BEEP per strada, coglionano mister X fino a casa dove arriva tremante e, diciamocelo pure, pisciato sotto. Ma questo è solo l'aperitivo perchè quando arrivano i carabinieri del paese, essendo un piccolo paese di gente civile, con due urla e due smorfie invitano i militari a battere in ritirata.

Quando il giorno dopo arrivano i rinforzi da BEEP, allora parte l'inferno modello intifada palestinese: i militari vengono allontanati alla svelta soprattutto col l'uso del buon vecchio sasso.

Ci prova anche il politico più importante del paese, il parlamentare BEEP, accorso direttamente da Roma per cercare di calmare gli animi ma, pure lui, viene gentilmente invitato a farsi gli affari suoi. E lui segue il consiglio.

Da BEEP la Prefettura invia il Maggiore BEEP, eroe in terra di Sicilia contro la mafia (sarebbe quello che fece finta di catturare il bandito BEEP). Baldanzoso e seguito da centinaia di militari, carabinieri e poliziotti, si getta nella mischia e riceve anche lui la sua giusta dose di mazzate.

Alla fine però sia i manganelli che le manette che i lacrimogeni hanno la meglio e alla fine dei tre giorni di sacre violenze il bollettino è pesante: oltre venti feriti e cinquantaquattro arresti. Un poliziotto centrato da un tufo gettato da un balcone muore di lì a pochi giorni in ospedale.

Come va a finire? Il presidente BEEP annulla l'esito delle elezioni e insedia un commissario prefettizio, proprio come chiedevano i manifestanti.
 

Questa storia dall'incontestabile sapore d'eroismo sembra però, oramai, quasi una favola, qualcosa di plausibile ma che non tocca mai davvero nel profondo le nostre corde più intime. Chi di noi moderni, nel 2011 come dieci o venti anni fa, sarebbe più capace di azioni tanto violente quanto giuste, sacrosante, per non dire civili?

Sì, parlo di civiltà perchè impedire il sopruso con l'unico mezzo che i cialtroni-papponi-ladroni della politica sentivano e sentono ancora oggi sono proprio le mazzate. Non parlo certo di massacri e fiumi di sangue, ma due schiaffoni ben assestati a tutti quelli che sono lì, lontani, che se la ridono di tutto mentre noi, qui, con la faccia nella polvere, facciamo finta di non vedere il loro piede che ci calpesta, facciamo finta di non sentire la loro mano che ci fruga nelle tasche, facciamo finta di non sentire la loro voce rauca dall'eccitazione predatoria.

Noi siamo tutto questo, io per primo, siamo come i fantasmi dei nostri avi, gente con  gli attributi tanti, mentre noi sappiamo solo sussurrare alle spalle e guardare inebetiti l'ennesima partita di calcio o l'ennesimo film d'azione. Siamo spettatori dell'azione, godiamo a vederla, godiamo quando succede altrove, il più lontano possibile, siamo degli zombie che si nutrono dei propri cervelli. Poco per volta, lentamente, fino alla fine.

Agostino Palmisano

giovedì 13 ottobre 2011

Dal 12 al 16 ottobre Tempi irregolari è presente alla Frankfurter Buchmesse



L'agenzia letteraria Tempi irregolari partner del Premio Merano Europa


Sabato 8 ottobre nella sala del Teatro Puccini di Merano si è celebrata la premiazione della nona edizione del premio letterario biennale Merano Europa. I 470 lavori pervenuti sono stati selezionati da una giuria di alto profilo, guidata dal giornalista Ruggero Po, voce del celebre programma radiofonico "Radio anch'io", da Federico Guiglia, scrittore e giornalista, conduttore su La7 del programma "Prossima Fermata", dalla sceneggiatrice e scrittrice di successo Francesca Melandri, dalla direttrice editoriale della casa editrice Salani Mariagrazia Mazzitelli, dall'attore Paolo Bonacelli e dallo scrittore e giornalista meranese Paolo Valente.
La serata è stata condotta da Enzo Coco, una delle anime del premio, assieme alla scrittrice Michela Franco Celani (rappresentata dalla Tempi irregolari), organizzato dal Passirio Club, guidato da Gilberto Bardi.
Il premio più ambito, quello da 4 mila euro per la narrativa, è andato a Daniela Raimondi con il racconto la "Corsa delle linci". Premiate anche Eugenia de Nicola (Pordenone) per la traduzione Lirica dal tedesco, con "Ghirlande in fiore" (1500 euro); per la Narrativa per l'infanzia Antonella Noventa (Padova) con "L'orso Gigi e la malinconia" (1500 euro); per l'Opera teatrale Maria Dell'Anno (Ferrara) con "Quello che le donne non possono non volere" (1500 euro), che sarà messo in scena dal Piccolo Teatro Città di Merano nel 2012); per la Poesia, non assegnato, ma con menzione speciale, a Giancarlo Ricciarelli (Roma).
E' stata inoltre tenuta lettura del testo poetico tradotto da Zweig da parte di Marlene Blumtritt, mentre Martina Bacher, dello stesso autore, ha letto un brano. A Laura Andrian, invece, il compito di leggere il toccante racconto di Daniela Raimondi. la Tempi irregolari ha avuto il piacere di collaborare con l'organizzazione del premio Merano-Europa, conferendo ai vincitori delle diverse sezioni una rappresentanza con la nostra agenzia.

http://altoadige.gelocal.it/dalgiornale/2011/10/10/news/il-premio-merano-europa-e-tutto-al-femminile-5119975
http://www.passirio.it/premio.html
http://altoadige.gelocal.it/cronaca/2010/12/04/news/letteratura-torna-il-premio-merano-europa-2896287

martedì 4 ottobre 2011

Prima presentazione italiana de "Dentro il labirinto" di Boris Pahor, edito in Italia da Fazi.

Giovedì 6 ottobre presso Casa ASCOLI in via Ascoli 1, primo piano, a Gorizia, BORIS PAHOR presenzierà alla prima presentazione italiana del volume DENTRO IL LABIRINTO, edito in Italia da Fazi Editore.
Presenterà e introdurrà l’opera letteraria TATJANA ROJC, la massima conoscitrice e studiosa dei testi pahoriani, autrice di due volumi – uno in uscita a fine anno per i tipi della Cankarjeva Zalozba – sull’autore.
La serata coinciderà  con la proclamazione del premio Nobel per la letteratura, cui Boris Pahor è candidato.

L’incontro è organizzato da TEMPI IRREGOLARI LITERARY AGENCY in collaborazione con la Biblioteca Statale Isontina.
 
 http://www.fazieditore.it/Libro.aspx?id=1162
http://www.corriere.it/cultura/libri/11_settembre_14/pahor-dentro-il-labirinto_4c989ba6-deb8-11e0-ab94-411420a89985.shtml

martedì 27 settembre 2011

Antonio Strinna recensisce "Fuori dalla terraferma" di Annalisa Comes

Da questa settimana abbiamo il piacere di ospitare gli
interventi dello scrittore e musicista Antonio Strinna che ha recensito varie opere di narrativa, poesia e musica nelle Riviste culturali Italialibri, Gemellae, Sonos e contos. Scrive prefazioni a libri di poesia e narrativa, svolge attività di promozione culturale e partecipa a convegni e presentazioni di libri in qualità di relatore.


 
FUORI DALLA TERRAFERMA di Annalisa Comes (Edizioni Gazebo). In copertina e all'interno disegni di Fred Charap.

Rotte, paure, naufragi eppure siamo ancora in Europa.

Che cosa c'è fuori dalla TERRAFERMA? Il poema del mare, dell'oceano, della vera immensità nella quale si specchia il cielo. E soprattutto l'essere umano, fragile e incerto, talvolta sconosciuto a se stesso. Nei versi di Annalisa Comes, che puntuali e meticolosi navigano su ogni genere di onda, da nord a sud, c'è un essere -uomo o donna non importa-, alla ricerca di se stesso: instancabile navigatore alle prese con le sue rotte, le sue paure, i suoi naufragi, e i continui ritorni. Dal mare alla terraferma e viceversa.

Così, leggendo questi versi, tutto può apparire al di fuori della terraferma e subito dopo lungo i suoi sentieri. Ed ecco che l'albergo, certe mattine al risveglio, sembra una barca. E ci sono barche che dondolano come culle. I mari -del sud e del nord-, finiscono per incontrarsi e poi si dicono, ancora una volta, addio. Perché in mezzo a loro c'è sempre il viaggio. Così il mare e la terraferma, solo in apparenza diversi e contrapposti, diventano una cosa sola, come lo erano alla nascita, in origine. E una cosa sola - nel loro avvicendarsi narrativo-, sono anche l'autrice, i personaggi e i luoghi narrati, all'interno di un intreccio affabulatorio lieve e suggestivo.

Guardando il mare, d'un tratto scopriamo di averlo attraversato; anzi, di essere stati parte viva delle sue acque. Dentro di noi, ma anche nelle nostre relazioni, c'è sempre questo misterioso liquido: come il respiro neppure lo avvertiamo, ma proprio per questo può abitare nella nostra consapevolezza nel modo più naturale possibile. Invisibile e per questo onnipresente.


L'ESPLORATORE DEI MARI DEL SUD

D'estate l'uomo racconta di altre estati.
Di una lunghissima
e con il braccio fa un gesto ampio,
ma senza nostalgia.
Racconta di una foresta tropicale
e dell'oceano che canta
e dell'acqua che si colora e lui la segue
prendendo appunti sul block notes giallo.

Ho visto le fotografie dei suoi mulini.
Pezzi di eliche e l'intera classe che sorride.
Lui ha una gonna a fiori di malva.
Il suo volto appare e scompare
davanti e dietro l'obiettivo.
Viaggia notte e giorno
senza fermarsi e pensa
che qui è abbastanza lontano: ma non si ferma.

Poi un giorno è tornato a casa
una casa a sud con le grandi ombre
proiettate sulle siepi e sulla porta del garage.
Come si può vedere nei versi di questa poesia, la prima del volume, la semplicità è del tutto naturale, ben dissimulata. E anche la leggerezza non tradisce alcuna artificiosità, nè carenza di significanti. In realtà, semplicità e leggerezza, plasmate in naturale armonia, rivelano la sapiente commistione poetica che caratterizza quest'opera e insieme il bagaglio, non solo metaforico, che accompagna la figura dell'uomo esploratore. Di chi pensa d'intraprendere un viaggio del quale non conosce nè la traversata nè il porto.
L'ardire del viaggio, fuori dalla terraferma, è in fondo anche l'ardire della poesia.

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Qualche nota sull'autrice.
Lunghissimo è l'elenco delle pubblicazioni, delle attività svolte, delle traduzioni e dei Premi vinti. Cito le pubblicazioni: "Ouvrage de dame" Ed. Gazebo, 2004, poi pubblicata anche da L'harmattan, Parigi; "Racconti italoamericani" pubblicati da L'harmattan Italia, Torino, 2007; "Fuori dalla terraferma", Ed. Gazebo, 2011.

mercoledì 14 settembre 2011

"Quel giorno...", di Maristella Angeli, per "Racconti da premio"

Racconti da premio propone oggi questo lavoro dell'autrice Maristella Angeli, risultato finalista al Quinto premio internazionale di narrativa ABICIZETA 2010, Edizioni Stravagario. Il lavoro fa parte di un'interessante raccolta di quatto racconti creati per una messinscena collegata dal fatto che le protagoniste, quattro anziane signore ricordano fatti della loro vita, effettivamente accaduti, che hanno del misterioso.
La protagonista di "Quel giorno...", una signora di 60 anni, ricorda una strana avventura: l’incontro con un angelo.
Un racconto fantastico che offre l'occasione per una riflessione su ciò che l’uomo non comprende, su tutto ciò che è “mistero”.


Quel giorno…

di Maristella Angeli


Un tappeto di soffice lana. Stavo sognando? No. Guardai meglio, ma gli occhi faticavano ad aprirsi in quel gelido mattino. Uno strato di neve ricopriva le strade e fiocchi leggeri e candidi continuavano a scendere velocemente, ondeggiando, fino a formare dei piccoli vortici che risalivano in alto.

Guardai la sveglia. Ore 6,00. Dovevo armarmi di una buona dose di coraggio e prepararmi in fretta  per arrivare a scuola. 50 km tutti pieni di neve e, probabilmente, di ghiaccio! Rabbrividii all’idea. Dopo essermi riscaldata con un cappuccino e un po’ di crackers, mi imbacuccai ben bene con sciarpa, cappello e guanti irlandesi. Presi anche tutto il necessario per togliere la neve che sicuramente seppelliva la mia auto e sbrinare il parabrezza.

Uscii quasi correndo, incespicando e scivolando più di una volta, come da cliché, e raggiunsi la mia auto. Era una gloriosa FIAT 127, vecchiotta ma gagliarda. Mi accinsi quindi a procedere. Ripulii alla meglio vetro e specchietti, non senza difficoltà, e alla fine rimirai soddisfatta il mio lavoro.

Il  traffico andava aumentando e cercai di sbrigarmi. Avevo un’altra prova da affrontare.

A quei tempi abitavo vicino alla stazione ferroviaria e, uscita di casa, mi aspettava una salitella assai ripida da fare con la macchina e quella mattina era ghiacciata da far paura. Ma avevo gli pneumatici da neve ed ero ben attrezzata. D’altra parte dovevo spesso raggiungere sedi di montagna per insegnare. La famosa gavetta! Eh sì, ma un po’ troppo lunga. Ben sedici anni di spezzoni orari in più scuole. Insegnavo Educazione Fisica; già, quella che ora hanno deciso di chiamare  Scienze Motorie e che i ragazzi continuano a chiamare Ginnastica.

Ero presa dai miei pensieri perciò e, riscaldando il motore a bordo della mia autovettura, fui sorpresa  da un insolito rumore. Qualcuno bussava al finestrino. Veniva giù talmente tanta neve che quel che vidi mi sembrò un’apparizione. C’era un uomo, elegante, vestito di un completo sportivo blu, che tentava di dirmi qualcosa. Abbassai il finestrino.

“Mi scusi, ma dove sta andando?”

“Come dove sto andando? Al lavoro!” , risposi un po’ seccata.

Lo guardai meglio. Doveva avere ventisette anni, più o meno, occhi azzurri, capelli biondo scuro e un sorriso molto dolce.

“Ma guarda tu che pezzo di ragazzo, che bonazzo ti vado ad incontrare in una giornata come questa!”, pensai tra me e me.

“Senta!” , continuò il tale.

“Torni a casa! E’ troppo pericoloso! Torni a casa, mi dia retta!”

La sua voce mi arrivava come un eco di montagna. Sembrava dipinta d’oro e dal dolce sapore di vaniglia. Rimasi imbambolata da quel suono che evocava in qualche modo qualcosa di ancestrale e che mi trasportava in una diversa dimensione.

Quei brevi momenti sembrarono lunghi un’eternità e, in quel tempo sospeso, vidi chiaramente ciò che sarebbe accaduto dopo. Una visione apocalittica: un gravissimo incidente stradale che coinvolgeva un pullman e due auto. Sangue ovunque, grida e sirene. Tante sirene. Guardai nell’interno delle vetture danneggiate e cercai di soccorrere quei poveracci. Ad un tratto però mi voltai e… vidi me stessa a bordo della mia 127!

“Scontro frontale. Niente da fare per la conducente”, stavano dicendo dei soccorritori, “hanno cercato di salvarla in ogni modo ma e’ morta. Morta sul colpo.”

Un brivido mi corse lungo la schiena. Tornai alla realtà. Ero lì, nella mia auto con gli occhi sbarrati persi nel vuoto.

Afferrai allora il volante tenendolo ben stretto e, chiusi gli occhi, cercai di convincermi che era  solo una visione. Sì, forse era un’allucinazione.

Mi girai ancora e… rividi quell’uomo, quello che aveva bussato al finestrino. Feci per rispondergli finalmente ma questi si voltò, allontanandosi in fretta.

Lo chiamai.

“Ehi! Ma dove va? Ehi signore! Come si chiama? Non mi ha neanche detto il suo nome.”

Sentivo che era importante saperlo.

Si girò sorridendo.

“Mikael, mi chiamo Mikael, ma tu potrai chiamarmi Mik!”

Si sollevò il bavero del cappotto e, poco dopo, scomparve. Divenne essenza bianca, un tutt’uno con quella soffice neve.

Non riuscivo a capacitarmi. Pensai ad una visione, una premonizione. Mi riscossi e scesi dalla macchina. Il tempo stava peggiorando e i fiocchi si erano fatti più grossi.

Mi cadde un guanto, feci per raccoglierlo e, guardando a terra, mi accorsi di non vedere impronte. Sì, proprio così: non c’erano impronte di piedi. Mi guardai intorno. Nessuna impronta di nessun tipo! Solo un manto di neve bianca immacolato.

Frastornata, e ormai senza più nessuna intenzione di raggiungere la scuola, tornai al mio appartamento, o meglio, a quello della mia famiglia. A quei tempi infatti abitavo ancora con mamma e papà, nonostante i miei ventitré anni, e ci sarei rimasta ancora per molto tempo. I soldi non erano sufficienti per potermi permettere un appartamentino tutto per me.

Telefonai alla segreteria per avvertire che era davvero impossibile raggiungere la scuola. Seppi così che il sindaco aveva emanato l’ordinanza di chiusura della sede e mi tranquillizzai.

I miei genitori, in apprensione, si calmarono vedendomi rientrare.

“Non è certo il caso di rischiare la vita”, disse mia madre quasi all’unisono con mio padre.

Infreddolita e con i piedi zuppi, mi cambiai, cercando un po’ di calore.

In quella casa faceva sempre freddo ed era umido. Non c’erano i termosifoni ed ognuno cercava di scaldarsi come poteva, con borse dell’acqua calda magari e babbucce ai piedi.

Mi avvicinai alla stufa che non era certo un granché. Era una di quelle a gasolio, che riusciva a scaldare solo la zona del corridoi. “Davanti ti scalda e di dietro ti strina” diceva sempre la mamma.

Fuori dalla finestra c’era il polo. La neve doveva aver raggiunto almeno i cinquanta centimetri! Stava facendo una di quelle nevicate davvero storiche! Per fortuna avevo deciso di tornare a casa. Per fortuna mi aveva fermato Mik!

Più tardi, a pranzo, mangiando un piatto di pasta e fagioli, energetica e calda, ma economica, rimasi col cucchiaio sospeso a mezz’aria ascoltando il notiziario.

“Gravissimo incidente in città. Due i veicoli coinvolti. Un’autovettura di grossa cilindrata e un pullman gran turismo. La macchina si è ribaltata e per la conducente non c’è stato niente da fare. E’ morta per le gravi ferite riportate. Nessun danno per l’autista del pullman.”

Rimasi basita. La strada era proprio quella che avrei dovuto percorrere io quella mattina, e anche l’ora era quella, sì, l’ora in cui solitamente transitavo in quel punto.

Quella sera mi addormentai presto e, nel sogno, rividi Mik.

Mi accarezzava che ero molto piccola. Mi teneva per mano, mentre ero a letto malata, e infine lo vidi starmi vicino, piangeva con me, perché mi sentivo sola. Mikael sorrideva. Un sorriso che mi riempiva di serenità.

Fin da piccola ho sempre pregato il mio angelo custode, perché pensavo che Gesù avesse troppo da fare per dedicarsi esclusivamente a me. Ma l’angelo no, mi dicevo, lui può aiutarmi. Così lo chiamavo ogni sera e gli chiedevo di farmi guarire, perché a quei tempi ero spesso malata. Lo pregavo di aiutarmi perché desideravo giocare come gli altri bambini e non volevo più soffrire di quei terribili attacchi d’asma che mi impedivano di farlo. Lo scongiuravo di farmi avere dei denti nuovi perché i miei sporgevano spaventosamente in fuori e me ne vergognavo tanto. E alla fine spesso gli chiedevo di farmi avere un cavallo tutto bianco, che mi portasse al galoppo via da lì, magari su di una spiaggia col sole d’estate e con la brezza del mare nei capelli. Era un po’ come il genio della lampada per me, ed era buono, tanto buono.

Così, la mattina dopo, mi ritrovai a pregare, chiedendo che ogni persona potesse avere un angelo custode tutto per sé e, facendolo, raccomandai all’angelo il buon Mikael, che mi aveva salvato la vita.

Sono trascorsi molti anni da allora ma quel ricordo, ormai lontano, mi torna spesso alla mente. Solo molto tempo dopo, con l’uso del computer di cui all’epoca non disponevo, sono riuscita a capire.

“Mikael: angelo che appartiene al coro delle virtù solari” diceva il testo su internet “Viene attribuito ai nati dal 19 al 23 ottobre.” Proprio il periodo in cui sono nata! Un angelo!

Avevo seguito molte trasmissioni sul mistero delle apparizioni degli angeli. Molte di queste erano  confermate da testimoni. Persone che avevano rischiato di morire. Perfino nelle torri gemelle, le Twin Towers di New York, ce n’erano state! Ebbene, alcune di queste giuravano di essersi salvate grazie all’intervento di un angelo!

Mi sono ormai convinta che tutti i soccorritori sono angeli, ma l’intervento divino è qualcosa che sfugge alla oggettività dei fatti e non può essere spiegata, né capita; di conseguenza neanche creduta.

È nella dimensione dell’anima, è lì che dobbiamo cercare. È lì che troveremo il nostro Mik!